L’appuntamento con il VII incontro mondiale delle famiglie a Milano (2-3 giugno 2012), alla presenza di papa Benedetto XVI, sollecita a guardare in modo nuovo alla realtà del loro ruolo cruciale nel mondo di oggi. Numerose sono infatti le indagini sociologiche, psicologiche, pedagogiche dedicate alla famiglia; molto più rare quelle antropologiche e filosofiche. Ci si ferma così alle manifestazioni del “fenomeno famiglia” (e si insiste spesso più sulle difficoltà, le crisi e i limiti della realtà familiare che non sul suo valore), senza arrivare a coglierne la natura originaria e perenne. 



Invece è il problema dell’identità della famiglia che merita di essere riportato al centro della riflessione. Sulla traccia di Ricoeur, possiamo suggerire di abbordarlo partendo dalla distinzione, di cui lui si è servito, tra l’idem e l’ipse del fenomeno. È l’ipotesi che viene sviluppata, con ricca dovizia di approfondimenti, nei testi di un nutrito dossier curato dalla rivista digitale Lineatemponline, da poco reso disponibile (2012, n. 23: La fecondità della famiglia, accessibile da www.diesse.org).



L’ identità idem è l’identità di qualcosa che resta mentre le apparenze o, come si dice, gli “accidenti”, cambiano. Il suo modello filosofico è stato, fin dall’antichità, la sostanza. La sostanza è il substrato, il supporto, identico nel senso che è immutabile, che non cambia, che è sottratto al tempo. Questa identità sostanziale può essere anche realizzata sotto forma di un’identità strutturale. Per esempio nel caso della famiglia il suo essere una struttura di diritto naturale e la cellula base della società, funzione che permane nei secoli.

Ma è possibile riflettere sullo stesso fenomeno come identità ipse, che non implica l’immutabilità e anzi, al contrario, si pone nonostante il cambiamento, nonostante la variabilità dei sentimenti, delle inclinazioni, dei desideri, ecc. 



“Faccio subito l’esempio più notevole dell’identità ipse; l’identità di me stesso quando mantengo una promessa. La promessa è sotto questo riguardo l’esempio più notevole, perché non abbiamo a che fare, nel caso del soggetto che promette, con una identità sostanziale; al contrario, mantengo la mia promessa nonostante i miei cambiamenti di umore. Questa è un’identità che potremmo chiamare di mantenimento, più che di sussistenza. Io sono e mi conservo lo stesso, nonostante non sia più identico, nonostante sia cambiato nel tempo” (Ricoeur).

Bene, scavare alla ricerca dell’identità ipse della famiglia riserva grandi sorprese: parlare di famiglia infatti significa parlare di novità, fin dall’origine; se non siamo tutti genitori, siamo tutti figli e “la paternità non è una causalità: ma l’instaurazione di un’unicità con la quale l’unicità del padre coincide e non coincide” (Levinas).

La dimenticanza/rimozione di questa elementare e densa verità ha avuto nel razionalismo moderno e nel relativismo postmoderno conseguenze catastrofiche, quali la riduzione della vita alla produzione, all’artificio, al possesso (nell’ambito familiare dei rapporti, nella nascita e nella morte, nell’educazione), mentre la “vita” è originariamente “relazione”, e perciò struttura stabile e dinamica al tempo stesso, perché forma l’identità umana nel concreto farsi della sua storia. 

Questo perché  la relazione generativa è strutturalmente una relazione “fiduciale”, in quanto non consiste in una semplice produzione biopsichica di individui umani, ma è caratterizzata da una generazione specificamente umana che, in quanto tale, “non può avvenire al di fuori del mutuo affidamento dei soggetti in gioco, ossia al di fuori di uno ‘stato di fede’, dove il termine fede indica innanzitutto non l’atto e il contenuto di una credenza, ma il legame, il vincolo che lega i soggetti e che rende possibile il riconoscimento reciproco” (Giuseppe Colombo).

Il “tu” è dunque più antico dell’“io” per il quale, sempre, la relazione precede la comunicazione, come mostra il fatto che “il sorgere dell’autocoscienza non è nella disponibilità del soggetto che diverrà autocosciente: perché la coscienza abbia o costituisca un mondo e divenga autocosciente, deve essere messa al mondo” (Colombo).

La dimensione familiare costituisce quindi un trascendentale della vita specificamente umana.

È su questa dinamica antropologica che si innesta la problematica esistenziale dell’esigenza del “riconoscimento” dell’altro per la realizzazione più autentica del nostro “io”: “C’è in noi qualcosa di costitutivo che ci apre agli altri. Siamo destinati al rapporto con gli altri, non possiamo vivere da soli” (così Massimo Camisasca in uno dei testi di apertura del dossier, che riprende e sviluppa le riflessioni svolte nel suo libro Amare ancora. Genitori e figli nel mondo di oggi e di domani).

È questa la ragione che conduce a comprendere che la grande domanda dell’uomo di oggi (è proprio vero che essere liberi vuol dire non avere legami?) può trovare proprio nella riflessione sui fenomeni naturali dell’innamoramento, dell’amore e del fare famiglia una risposta capace di assumere tutti gli ondeggiamenti, i limiti e le debolezze tipiche dei rapporti umani in una prospettiva di “identità narrativa” del singolo “io”, portando alla consapevolezza che “la vita è condivisione” e che questa si sviluppa attraverso progressive decisioni di “autolimitazione del proprio dominio”, in un percorso che non riduce la nostra libertà né quando con decisione si assumono responsabilmente i legami da cui siamo costituiti, né quando ne stringiamo volontariamente di nuovi, perché “attraverso il nostro desiderio di compierci in altri il nostro volto si rivela e così, almeno come ombra, anche il disegno che governa la nostra vita” (Camisasca). 

Se nell’uomo è inscritta una destinazione all’incontro e all’unità che è profonda, radicale, inestirpabile, allora la famiglia non può essere considerata “semplicemente un istituto che vuole garantire alcuni beni transitori (per esempio che si faccia assieme una casa, che si abbiano assieme delle proprietà, che ci sia un tetto). Il bene primario fondamentale che la famiglia custodisce dentro di sé è la destinazione dell’uomo alla comunione” (Camisasca).

Ma come possiamo costruire stabilmente sulla nostra capacità affettiva? 

L’affezione infatti in realtà è la “cosa più fragile in noi” perché, come nota Giussani “se prendiamo sul serio, a differenza del mondo, la nostra affettività, a un certo punto ci troviamo di fronte ad un’incapacità che appare più drammatica, terribile. Per esempio, il suo culmine, la gratuità, si capisce che è impossibile”.

Ecco allora la via regia per l’apertura alla comunione universale: il rapporto sponsale e familiare. Perché se l’uomo è dato a se stesso nell’“essere messo al mondo da altri”, ed è perciò posto strutturalmente e permanentemente nella condizione di “figlio”, allora potrà realizzarsi solo se, sia pur in modi diversi, vivrà continuamente “generato da altri”, come accade nel fenomeno della relazione familiare e genitoriale (è quanto afferma Francesco Ventorino in L’amicizia coniugale).

È comprensibile come questo tipo di rapporto muti nel corso dei secoli, in contesti che di volta in volta ne favoriscono la stabilità o, come oggi, ne riducano la valenza culturale in nome del principio di non discriminazione per cui si tende ad equiparare alla famiglia ogni tipo di unione (come documenta la fine analisi sull’evoluzione del diritto di famiglia nell’Europa attuale svolta da Lorenza Violini e Stefania Ninatti nel loro contributo al dossier su La famiglia fra Costituzione italiana e integrazione europea).

Eppure nel corso dei secoli la fondamentale dinamica “naturale” della relazione fiduciale generativa è stata conservata, ampliata e tematizzata dalla tradizione culturale occidentale, soprattutto da quando il cristianesimo ha cominciato a vivificarla e ad “umanizzarla” sapendo adattarsi (ma anche contestandone le aberrazioni) alle diverse forme e “mode” che la famiglia ha assunto nei diversi contesti sociali (ce ne dà una bella dimostrazione l’analisi dell’evoluzione delle modalità di celebrazione del matrimonio dal Medioevo all’Antico Regime – il periodo per intendersi dei Promessi sposi – svolto da Marzia Giuliani nel suo percorso storico-iconografico Celebrare il matrimonio. Altre conferme vengono dalla mostra aperta al Palazzo delle Stelline su La vita condivisa, presentata dalla curatrice Cecilia De Carli).

È così che ancora oggi riscoprire (e praticare) la dinamica antropologica della famiglia è non solo un compito auspicabile, ma una possibilità reale per “far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà” (Benedetto XVI, discorso di Verona, 2006).

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