George Steiner è uno dei più colti saggisti della nostra epoca. Le sue competenze spaziano dalla letteratura alla storia dell’arte, dalla musica alla filosofia, con non occasionali incursioni nel dominio delle scienze esatte. Libri come Tolstoj o Dostoevskij (1959), La morte della tragedia (1961), Dopo Babele (1975) e Le Antigoni (1984) sono ormai classici della critica letteraria; e non leggere Grammatiche della creazione (2001) o La lezione dei maestri (2003) significa privarsi di un’occasione preziosa per riflettere sulla portata cognitiva e sulla funzione educativa delle discipline umanistiche. Opportunamente, perciò, la casa editrice Vita e Pensiero, presenta ora Il libro dei libri (1996), in cui l’elegante interprete si cimenta con la più difficile delle prove. 



Come il card. Ravasi rileva, nella premessa, dal punto di vista esegetico talune affermazioni possono destare perplessità (si vedano, soprattutto, le pp. 44-47, sull’interpretazione cristologica della Bibbia ebraica). L’inquadramento, sul versante ermeneutico, sembrerebbe non essere sempre impeccabile. Ma ora è la sostanza, il cuore di un atteggiamento che si vorrebbero vagliare. Che cosa è la Bibbia per Steiner? Che cosa, del “Libro dei libri”, registrano le sue antenne sensibilissime? «La Bibbia – esordisce Steiner – non è un libro. È il libro»: quello che, non solo per la cultura occidentale, definisce il concetto stesso di testo. Tutti gli altri «sono come scintille, in realtà spesso distanti, sprigionate dall’incessante respiro di un nucleo incandescente». La Bibbia è una «presenza in atto» – un fatto storico ineliminabile – da cui, nei secoli, è venuto agli uomini «il passaporto per un viaggio nel proprio mondo interiore». In Occidente, e nel mondo, il confronto con la Bibbia è stato il movimento decisivo di ogni cultura, di ogni individuo, verso la maturazione di un’identità storica e sociale, di un rapporto positivo con la realtà. Densità e forza attrattiva del corpus biblico, sono, in quest’ottica, «incommensurabili. Le questione teologiche ed etiche introdotte, a una profondità e con una intensità immaginativa mai superate, sono quelle che ancora oggi l’uomo si trova ad affrontare. Eppure, a dispetto di una millenaria tradizione di studi, in cui devozione ed erudizione si intrecciano, «quel che sappiamo della Bibbia […] le domande cui siamo in grado di rispondere con sicurezza sono quasi banali se paragonate a quelle cui non sappiamo rispondere». 



Nel primo capitolo Steiner commenta la fisionomia letteraria e la tradizione testuale delle Sacre Scritture, usando – come termini di confronto – i poemi omerici e le opere di Shakespeare. Tradurre la Bibbia è stato per ogni lingua il cimento supremo in cui essa si è forgiata. «I commentari ammutoliscono» dinnanzi alla potenza narrativa e, al tempo stesso, all’assoluta parsimonia delle pagine bibliche, da cui l’immaginario occidentale ha dedotte le forme e i contenuti della propria speranza («la speranza che ci sia una speranza»). La lingua e lo stile delle Sacre Scritture tuttavia – è il tema del secondo capitolo – generano fatalmente «una ricchezza di possibili letture che non si riscontra» altrove. La polisemia è iscritta nel testo fin dall’origine: e da questo punto di vista Antico e Nuovo Testamento non somigliano ad alcun’altra opera. 



Il capitolo terzo offre una sintetica rassegna sui libri dell’Antico Testamento, postillandone l’irriducibile fisionomia. Alcuni esempi: «Le sollecitazioni e provocazioni narrative della Torah non hanno mai allentato la loro presa sulla mente e sulla coscienza dell’uomo»; il libro di Giobbe «non ha eguali nella letteratura mondiale», adombrando una «misteriosa colpa nel semplice fatto di esistere»; nei Salmi si dispiega l’appassionata “conversazione” dell’uomo con Dio, e il senso religioso si traduce in «una fede al di là di ogni definizione»; i profeti sono «spiriti umani plasmati senza mediazione, costretti dal respiro dell’Onnipotente», e per essi prende voce «l’eterna volontà e intenzione di Dio», il suo perpetuo reinvestimento sul genere umano. 

Si arriva, nell’ultimo capitolo, alla domanda decisiva: «Ma la Bibbia è essa stessa letteratura?». Le due possibili risposte sono riassunte così: la Bibbia è una raccolta di testimonianze in cui ogni parola è ispirata da Dio, oppure è una raccolta di miti e leggende, codici legislativi e trattati morali…, costruita da uomini diversi nel corso dei secoli. Si può uscire dal dilemma? Steiner, lasciando da parte – per un momento – l’ironia, con cautela e franchezza registra la propria posizione. E, a due pagine dalla conclusione, afferma: «Ora parlo solo per me». La semplicità lancinante, e drammatica, dell’ammissione documenta che qui sono in gioco la libertà e la coscienza, la responsabilità e l’intelligenza di ciascuno. È il bivio attraversando il quale si diventa uomini. E Steiner confessa che l’ipotesi positivistica lo lascia annaspare, disorientato. Da lettore e critico, queste pagine, invece, lo “obbligano” a postulare «un ordine d’ispirazione e dominio sulle parole per il quale non disponiamo di alcun adeguato metro di paragone, né di alcuna spiegazione naturalistica soddisfacente». 

L’eccedenza della pagina biblica impedisce di confinare quelle parole al passato remoto da cui provengono. Esse sembrano possedere un intrinseco valore aggiunto, un’efficacia e un peso superiori all’immediata consapevolezza che può averne avuto il loro autore materiale, al momento della scrittura. Non c’è comparazione possibile. Per spiegare questo “dato” Steiner introduce il sostantivo ispirazione. È il medesimo adoperato da Joseph Ratzinger nella premessa al suo libro su Gesù di Nazareth del 2007, discutendo le forme di esegesi più adeguate alle Sacre Scritture. Su questa parola – ispirazione – il professore e il teologo si danno la mano. «Qui – scrive Benedetto XVI – possiamo intuire anche storicamente che cosa significhi ispirazione: l’autore non parla da privato come un soggetto chiuso in se stesso. Parla in una comunità viva e quindi in un vivo movimento storico che non è fatto da lui e neppure dalla collettività, ma nel quale è all’opera una superiore forza guida».

La presenza di una superiore forza guida è ciò che a ogni lettore della Bibbia è domandato di ammettere, arrendendovisi.