Tra il XVII e XIX secolo l’Inghilterra promulgò gli Enclosure Acts con cui le terre per i pascoli del bestiame furono privatizzate (e recintate) per destinarle alla coltivazione intensiva. Fino allora quelle terre erano comuni e scarsamente utilizzate, non avendo proprietario se non in un senso puramente formale il sovrano; ma per questo accessibili gratuitamente a chiunque. I pastori, coltivatori, contadini, cacciatori inglesi che quindi fino a quel momento avevano utilizzato liberamente le terre comuni per la loro sussistenza, ne furono esclusi o limitati nell’accesso a seguito delle enclosures e dovettero trasferirsi con le loro famiglie dalle campagne nelle città. 



Questa Grande Trasformazione, come la definì il socio-economista Karl Polanyi, determinò che mano d’opera a basso costo si concentrasse in luoghi come le città, precondizione per sfruttare al meglio la macchina a vapore di Watt e dare l’incipit alla rivoluzione industriale inglese. Negli stessi anni circa, un processo simile (con la promulgazione dell’Homestead Act) si verificò negli Usa a discapito degli indigeni americani. 



La privatizzazione delle terre ha avuto il pregio di permettere un uso più intenso delle risorse e quindi favorire lo sviluppo economico dell’Occidente, al costo, però, di condizioni socio-igieniche indegne per gran parte della popolazione di lavoratori, e che solo dopo molti decenni (o secoli) hanno trovato una soluzione (almeno parziale) con la definizione di un diritto del lavoro e di un welfare state. 

All’incirca nello stesso periodo, ma in un altro luogo del mondo, Törbel in Svizzera (Cantone Vallese), si assistette invece a una definizione sostanzialmente diversa del diritto sulle terre. La gestione di queste non fu assegnata né a un privato né a un ente statale, ma attribuita alla comunità di soggetti che la utilizzavano. Tale particolare definizione di istituzioni “collettive” si è mostrata stabile ed efficiente per secoli a Törbel, mostrando che può esistere una terza via (efficiente ed efficace) tra una gestione strettamente statale (come quella inglese prima degli enclosure) e una gestione strettamente privata (come quella inglese dopo degli enclosure) delle risorse. Questo rappresenta il grande contributo empirico e teorico che ci proviene dagli studi di Elinor Ostrom. 



Purtroppo, Elinor Ostrom, prima donna (e al momento l’unica!) a vincere il premio Nobel per le Scienze economiche nel 2009, è morta lo scorso 12 giugno all’età di 78 anni a causa di un cancro. Nell’aprile del 2012 il Time l’aveva indicata come una delle 100 persone più influenti al mondo. Lavorava presso l’Università dell’Indiana e dirigeva con il marito il Centro di ricerca di studi e analisi politica «Vincent and Elinor Ostrom». 

La sua ricerca concerneva proprio la governance delle risorse comuni (anche note come commons). I commons sono quelle risorse naturali – terre per pascoli, aree ittiche, boschi per legname, acqua per irrigazione dei campi agricoli – o immateriali – come la conoscenza – per cui è molto costoso controllare ed escludere (o recintarne) il consumo degli “utilizzatori”. Il problema di queste tipologie di risorse, aveva mostrato nel 1968 Garret Hardin (ma già Aristotele aveva osservato un fenomeno analogo) è che sono sovra-sfruttate o comunque la loro cura e sostenibilità è trascurata dagli utilizzatori. La ragione sta nel fatto che i soggetti si comportano opportunisticamente (in gergo, da free-rider) considerando la risorsa a cui accedono, senza possibilità di esserne esclusi, una risorsa gratuita, e perciò massimizzano i propri benefici privati ma trascurano o collettivizzano i costi. 

Hardin per descrivere questo fenomeno coniò l’espressione “tragedia dei beni comuni” e diede alle scienze sociali una delle metafore più evocative dopo la “mano invisibile” di Adam Smith. Queste due metafore sono efficaci in quanto catturano due situazioni sociali essenziali ma fortemente in contrasto tra loro: quando le interazioni sociali sono guidate da una mano invisibile, queste riconciliano scelte individuali e risultati socialmente desiderabili, mentre nella tragedia dei beni comuni i soggetti inseguendo i loro obiettivi privati determinano disastrose conseguenze per sé stessi e gli altri. La soluzione alla tragedia dei commons, prima del contributo della Ostrom e dei suoi studi, era quella di privatizzare le risorse o, in una prospettiva diametralmente opposta, definire un Leviatano per una loro gestione statale. 

La Ostrom ha invece dimostrato che all’interno delle comunità possono emergere dal basso regole e istituzioni di non-mercato e neanche di pianificazione pubblica in grado di assicurare una gestione sostenibile, condivisa ed efficiente dal punto di vista economico di tali risorse. Oltre al villaggio di Törbel, la Ostrom riporta gli esempi delle terre comuni nei villaggi giapponesi di Hirano e Nagaike in Giappone, il meccanismo di irrigazione huerta tra Valencia, Murcia e Alicante in Spagna, la comunità di irrigazione zanjera nelle Filippine. Ma anche la proprietà nella forma di vicinale (o vicinie), tipica dell’Emilia, del Bellunese e del Ticinese, sono istituzioni collettive, seppur non investigate dalla Ostrom. L’argomento poi trova una veste più moderna se si nota che anche la “comunità di Wikipedia” è una forma di istituzione collettiva di successo su una risorsa comune (la conoscenza). 

In tutti questi casi i “dettagli istituzionali” sono essenziali. Partendo dai contributi teorici di Ronald Coase, Douglass North e Oliver Williamson, la Ostrom isola i caratteri principali degli auto-governo locali. Una prima condizione istituzionale alla base del successo di questi meccanismi è la chiarezza del diritto (chi può fare cosa? Cosa non si può fare? Chi punisce chi? E Come?). Le regole oltre a essere chiare, poi, devono essere condivise dalla comunità. Per questo un elemento essenziale dell’auto-governo è la definizione di metodi di decisione collettiva e democratica, in grado di coinvolgere tutti i fruitori della risorsa. 

Inoltre i meccanismi di risoluzione dei conflitti devono avere ambiti locali e pubblici, in maniera tale da essere accessibili per tutti i soggetti di una comunità. Accanto a meccanismi di sanzioni progressive, si prevede ancora che si instauri un controllo reciproco tra gli stessi fruitori della risorsa. Questo ha un duplice merito: primo, chi è interessato a una gestione corretta della risorsa (il fruitore) ha anche i giusti incentivi per svolgere un controllo della medesima; secondo, i fruitori sono anche i soggetti che hanno le maggiori informazioni su come la risorsa possa essere utilizzata in maniera inappropriata dagli altri. Infine, le regole oltre a essere chiare, condivise e rese effettive da tutti i fruitori, non devono contrastare con livelli superiori di governo (esempio regole statali). 

Con quest’ultima condizione appare chiaro che la grande dicotomia stato e mercato è parziale e troppo stretta, e quindi destinata a sgretolarsi teoricamente (scrive la Ostrom nel suo Governare i beni collettivi). In una prospettiva più corretta (ci ricorda lo stesso titolo della Lecture per il Nobel della Ostrom “Beyond Markets and States: Polycentric Governance of Complex Economic Systems”) si deve tener conto del fatto che nella realtà emergono e possono coesistere più livelli complementari (e non strettamente alternativi) di “governance” della medesima risorsa. Come precisa la Ostrom, per policentrismo si indica una pluralità di centri decisionali interdipendenti sulla gestione di una risorsa; sotto quali condizioni i vari livelli cooperano come un unico sistema o entrano in conflitto è l’agenda di ricerca che ereditiamo da Elinor Ostrom e al cui studio, permetteteci di ricordare, il Centro Studi Tocqueville-Acton ha dedicato il suo annale 2011 “Subsidiarity and Institutional Polyarchy”. 

Leggi anche

FEDERICO CAFFE'/ Il keynesiano che smascherò (in anticipo) i "banditi" della finanzaGIORNALI/ Se papa Francesco conosce il mercato meglio dei conservatori inglesiLETTURE/ Quella "teoria" che può salvare l'Europa in bancarotta