Perché la metafisica è importante per la vita? E cosa c’entra con la famiglia e con i figli?

Ho conosciuto (anche se non di persona) Rémi Brague, membro dell’Institut de France e professore di Filosofia alla Sorbona di Parigi e all’Università Ludwig-Maximilians di Monaco, circa un anno e mezzo fa, in occasione della presentazione pubblica della rivista on line di filosofia Philosophicalnews (che Brague onora con il far parte del comitato scientifico) ma non conoscevo bene le sue riflessioni metafisiche.



Quando mi è stato chiesto di recensire la prima edizione italiana del suo Ancore nel cielo. L’infrastruttura metafisica (Vita e Pensiero, Milano 2012), uscito per la prima volta a Parigi nel 2011 come raccolta di conferenze da lui tenute nel 2009 a Barcellona presso la Fondazione Joan Maragall, eravamo alla vigilia dell’incontro mondiale delle famiglie e della visita del Papa a Milano. Devo dire che, anche se il titolo stesso lasciava già intuire un approccio quanto meno originale alla metafisica, non avrei mai pensato di trovarmi di fronte a un testo che, parlando del tema dell’essere, interpellasse direttamente la vita e (anche qui direttamente) la famiglia.



Nella prefazione, Brague avverte il lettore che forse l’excursus sulla storia della filosofia, nei primi due capitoli del libro, potrebbe risultare ostico a un non addetto ai lavori (cioè a un non filosofo); e, in effetti, è vero che la parte dove è contenuto quello che più sta a cuore all’autore è il resto del volume, nel quale si dice che, senza la convinzione che l’essere sia bene, non si mettono al mondo i figli.

Eppure, quella ricostruzione storica risulta fondamentale o (almeno) molto interessante e il lettore, che l’avesse saltata all’inizio, sarebbe spinto a riprenderla in mano a lettura del volume terminata, perché in essa Brague spiega chi sono i primi responsabili del divorzio filosofico tra l’essere e il bene.



Tanto più che, se risulta facile individuare i grandi cantori del nichilismo in Schopenhauer (1788-1869) e in Nietzsche (1844-1900) nel diciannovesimo secolo e, oggi, nel nichilista gaio Gianni Vattimo (per il quale essere nichilista significa non credere in nulla), non altrettanto lo è individuare le origini della separazione del bene dall’essere nel volontarismo tardomedievale dei filosofi francescani d’Oltremanica Giovanni Duns Scoto (1265-1308) e Guglielmo di Ockham (1280 c.a-1324).

Se, infatti, come entrambi sostennero anche sulla scorta del filosofo arabo Avicenna (980-1037), è solo Dio che conferisce il bene alle creature e l’esistenza umana, senza l’intervento della volontà di Dio che le dona il bene, sarebbe pura fattualità, allora questo significa che l’esistenza umana può essere concepita come separata dal bene.

Una visione della contingenza che si fondava anche sulla negazione della possibilità per la ragione di dimostrare la creazione del mondo (Scoto) e l’esistenza di Dio (Ockham) e che, per essere salvata dal disfacimento, aveva bisogno, prima o poi, di essere integrata con l’idea di un patteggiamento di una convivenza artificiale con gli altri: la porta era stata spalancata per una riflessione che avrebbe condotto al contrattualismo moderno di Thomas Hobbes (1588-1679), Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) e Adam Smith (1723-1790) e, nel Novecento, al neo-contrattualismo di John Rawls (1921-2002).  

Si tratta, secondo Brague, di una forma di individualismo all’interno del quale l’uomo, quando ama la vita, ciò che ama è solo la propria vita e, non avendo fiducia nella bontà dell’essere, non è disposto a donarla. 

E, se da questo tipo di mentalità non sarebbero stati immuni nemmeno un Pascal e un Kierkegaard (non a caso formatisi nel contesto del giansenismo il primo e nel protestantesimo il secondo, comunque in un humus fortemente influenzato dal volontarismo luterano debitore in parte della visione scotista e occamista), la via per tornare alla metafisica passa, secondo Brague, attraverso Dostoevskij (1821-1881), Karl Jaspers (1883-1969), Günter Anders (1902-1992), Hans Jonas (1903-1993), Hannah Arendt (1906-1975), Emmanuel Lévinas (1905-1995). 

Alla metà del Novecento, uno dei filosofi che meglio hanno contribuito a far comprendere il legame tra la metafisica e l’esperienza umana, Gabriel Marcel (1889-1973), concludeva Il mistero dell’essere, sostenendo che l’opzione metafisica decisiva si dovesse porre sul terreno dell’immortalità. 

Credo non sia facile stabilire se questa frase significhi che la metafisica serva alla fede nell’immortalità o se, al contrario, senza la fede nell’immortalità, non c’è metafisica.

In ogni caso, se per immortalità si intende (anche) il desiderio umano di mettere al mondo dei figli che sopravvivano alla nostra morte, allora Brague concorderebbe nell’interpretare quella frase di Marcel nel primo dei due significati: senza metafisica non c’è fede nell’immortalità, anche perché (e questo è un altro dei punti del volume che meriterebbe di essere approfondito) «con la crescente capacità da parte degli uomini di scegliere di essere o di non essere, il bisogno di ragioni per scegliere l’essere diventa più pressante» (p. 99). 

Il riferimento è alle tecniche di fecondazione artificiale e Brague è convinto che, quand’anche si dovesse verificare una situazione nella quale bastasse premere un pulsante per produrre tutto l’umano, resterebbe comunque la questione metafisica fondamentale: «Alla fine, infatti, si dovrebbe premere quel pulsante? Sarebbe moralmente accettabile farlo?» (p. 77). 

Ma allora, se la metafisica è l’infrastruttura dell’umano, quali e quanti sono i luoghi dove (oltre alla ricerca e all’insegnamento accademici) può essere recuperata? E soprattutto: se è vero tutto questo, se cioè la metafisica è una componente fondamentale della vita e c’entra anche con la generazione umana, cosa sono davvero, in quest’ottica, la vita, la famiglia e i figli? In che senso aver pensato queste realtà ignorando l’infrastruttura metafisica dell’uomo può aver costituito un limite nella loro comprensione?