Le parole che si diffondono in ogni epoca della vicenda umana sono spesso i segni attraverso cui decifrare il significato profondo di ciò che accade nel “sottosuolo” della società. Il problema della diagnosi del presente è, quindi, capire a cosa alludono le parole adoperate nel linguaggio comune per rappresentare la condizione in cui ci troviamo. Da più di un anno sentiamo parlare dell’enormità del “debito” che l’Europa è chiamata a pagare, dopo anni e anni di spreco e di consumo di ogni genere di bene offerto dal mercato. Per spiegare il comportamento della Germania, Lerner ha cercato di mettere in rapporto la parola “debito” con la parola “schuld”, per sottolineare la severità con cui nella cultura tedesca viene stigmatizzato il comportamento del debitore.
L’associazione, continuamente rappresentata nel linguaggio comune, fra la crisi finanziaria e un’imminente catastrofe sull’Europa, richiama assai spesso il termine del “sacrificio” come necessaria espiazione di colpe passate, e allude al possibile contagio da parte di paesi sull’orlo del fallimento, come la Grecia, nei confronti degli altri paesi europei. La continua riaffermazione della necessità assoluta di evitare il baratro che questo contagio potrebbe provocare è l’argomento fondamentale con cui si invoca l’adesione a politiche di austerità.
Colpa, sacrificio, espiazione, contagio sono le espressioni attraverso cui si descrive la situazione attuale. La rappresentazione della crisi mondiale mi richiama alla mente le rappresentazioni filosofiche e letterarie sull’irrompere improvviso della calamità della peste, dall’episodio della peste a Tebe nella tragedia greca al racconto drammatico della peste a Milano del Manzoni.
Anche nella situazione attuale, siamo di fronte ad una rappresentazione di ciò che sta distruggendo la nostra economia e la nostra vita come di un flagello anonimo che colpisce tutti gli abitanti di un paese in modo apparentemente eguale. Come nella peste di Manzoni, ci sono gli untori che alimentano con toni apocalittici l’angoscia del popolo di fronte ad una sventura che pare sottrarsi a ogni giudizio di responsabilità; ci sono i poveri ingenui che, come Renzo, abboccano al linguaggio demagogico dei profeti di sventura e si ritrovano coinvolti nella rivolta del pane (manifestazione del dramma della carestia legata alla pestilenza); ci sono quelli che si convertono come l’Innominato e scrivono memoriali sulla condotta illegale e rapinosa dei gruppi finanziari che hanno neutralizzato la sovranità economica degli stati nazionali; ci sono i predicatori che, in nome della necessità assoluta della congiuntura fatale, chiedono il consenso delle vittime per attuare nuove misure di profilassi sociale; ci sono gli azzeccagarbugli di turno che cercano di convincere i deboli e gli inermi che hanno sempre torto. Anche Bufalino, nel suo racconto sulla “diceria dell’ untore” metteva in evidenza come la diffusione della malattia crei le nuove figure sociali dei seminatori di sospetto anche verso il prossimo immediato.
Se si guarda con attenzione alle parole adoperate e al clima che si è diffuso in Europa, si può istituire un’analogia con il clima sociale in cui si manifestava l’epidemia della peste. L’insistenza con cui i dirigenti europei continuano a definire la Grecia come l’origine di tutti i guai assomiglia in modo sorprendente alla ricerca del capro espiatorio per dirottare fuori dalla propria cerchia la responsabilità dei disastri che accadono. Già molti commentatori, e da ultimo Eva Cantarella, hanno sottolineato lo sfregio con cui clamorosamente le classi dirigenti europee stanno additando la Grecia come causa di tutti i mali.
Oggi si sta ripetendo la stessa scena con la situazione del debito spagnolo e con il rischio di “contagio” ad altri paesi europei come l’Italia. Come nell’epoca della peste, tutti sono omologati come colpevoli e vittime insieme di eventi che sovrastano ogni capacità umana di comprensione e controllo. La peste monetaria viene presentata come la “livella” di Totò, rispetto a cui tutti sono uguali, e non ha senso invocare differenze di giudizio e di comportamento. La peste come calamità assoluta che si abbatte su un popolo per imperscrutabili ragioni, cancella ogni responsabilità individuale e collettiva e chiama tutti a trovare rimedio alle conseguenze della “malattia” attraverso la disponibilità ad accettare qualsiasi sacrificio in nome di una possibile salvezza di cui non si intravede il percorso. Nel clima della peste ciascuno cerca disperatamente di salvare se stesso anche a costo della morte degli altri. Si sfrena l’egoismo primitivo e selvaggio che rende ciechi e impedisce ogni possibilità di identificarsi con l’altro. La peste segna la fine di ogni alterità possibile e mobilita solo l’istinto primitivo di conservare la propria vita, costi quel che costi.
Il linguaggio adoperato dai governanti è privo di alternative: le richieste anonime dei mercati di soddisfare le proprie pretese appaiono come una necessità ineluttabile; le misure che vengono adottate sono presentate come inderogabili per realizzare l’espiazione dei cittadini che si sono sfrenati nel godimento e nel consumo. Ci sono tutte le caratteristiche di una situazione sociale in cui il senso della peste come grande catastrofe si diffonde nel senso comune: una maggioranza politica e un sistema mediatico che continuamente sollecitano a riflettere sulla gravità del rischio di un caos assoluto che può travolgere ogni ordine; alimentando l’angoscia che per evitare il rischio di contagio sia necessario tagliare ogni legame di solidarietà con i Paesi più deboli anche quando siamo legati ad essi da una storia millenaria.
La presenza di alternative è esclusa per principio, poiché il regime della peste è un regime di necessità sottratto ad ogni giudizio di possibilità e ad ogni distinzione. Ritorna un antico tema dell’angoscia umana: il terrore che forze misteriose e indecifrabili si abbattano come un destino funesto (Sergio Givone, La metafisica della peste). Di fronte a questo implacabile destino ciascuno diventa nemico di se stesso e degli altri ed è chiamato ad una rassegnazione senza voce o alla ricerca spasmodica di un capro espiatorio su cui riversare la responsabilità di ogni cosa. Anche l’attuale delegittimazione di ogni forma di partito o organizzazione sociale appartiene alla logica del capro espiatorio.
La rappresentazione della crisi finanziaria come eventualità priva di spiegazioni in termini di lotta per il potere e di abuso di privilegi nei confronti dei più deboli, consente, attraverso l’analogia con la sindrome della peste sociale, di verificare l’effetto di accecamento collettivo che le classi dirigenti e il sistema mediatico tendono a determinare nella coscienza di ciascuno.
L’ultimo libro di Luciano Gallino (La lotta di classe dopo la lotta di classe) che spiega come, nonostante ogni apparenza, sia in atto una lotta feroce tra i vincitori (la nuova classe dell’establishment mondiale) e i perdenti (lavoratori, cittadini, giovani e donne) non suscita alcuna discussione pubblica, perché l’interesse di chi governa, direttamente o indirettamente, è quello di mantenere il senso comune in una confusione in cui non sia più possibile distinguere non solo la destra dalla sinistra, ma neppure Marchionne dall’operaio di Termini Imerese.
Nell’epoca della peste siamo tutti accecati, tutto si risolve nel rischio di fallimento generalizzato, nella necessità dell’austerità e nella condanna senza appello di altri popoli. Stimolare l’inimicizia verso un altro popolo ed esprimere un giudizio di colpevolezza senza appello non può che riflettersi sul legame sociale: se la Grecia è un pericolo per la nostra vita, il sud d’Italia diventa un pericolo per il nord, la tutela dei lavoratori diventa un pericolo per il profitto dell’impresa, e nella confusione generale l’unica legge dominante diventa l’inimicizia generalizzata. L’accecamento della peste è l’accecamento della capacità di mantenere le differenze e di costruire sulla differenza e sulla sua accettazione il confronto e la cooperazione con l’altro.
Nell’attuale crisi generale torna prepotentemente il tema della paura dell’altro e dell’incapacità di elaborare le differenze; l’alterità scompare del tutto e nell’indifferenziato dello “schifo generale” non si ritrova più il “volto” dell’altro. Lo sfrenarsi delle rivendicazioni localistiche e dei nazionalismi razzisti, che minacciano profondamente il senso della convivenza europea, è la prova che si tratta di una vera e propria crisi di indifferenziazione che distrugge lo spazio dell’alterità. La peste, come il terremoto e come tutte le catastrofi apparentemente non imputabili all’azione umana, pone lo statuto della necessità del destino al centro della rappresentazione della vita umana: non resta che rassegnarsi e abbandonarsi agli istinti di conservazione più primitivi.
Ma la peste può produrre i suoi effetti devastanti soltanto se la società che ne viene colpita si lascia accecare e non riesce più a vedere le differenze che vivono e si alimentano nella realtà dell’esperienza individuale e collettiva. Per salvarci dalla peste monetaria dobbiamo riacquisire la capacità di giudicare ciò che accade come frutto dell’azione umana e della volontà e responsabilità di soggetti e persone concrete. La cronaca ci dice che se un terremoto produce vittime e disastri ciò dipende in gran parte dalla responsabilità di chi costruisce senza regole e senza rispetto per la vita degli altri.