Nel corso della sua lunga carriera, Renoir manifesta un’irrefrenabile curiosità nei confronti di ogni cosa. È sempre pronto a lasciarsi sedurre, meravigliare, sorprendere: non importa se dalla tela di un maestro del passato, dall’aspetto un po’ in carne di una giovane modella o da una vivace operetta dell’amico Offenbach. Ciò che conta, per lui, è rimanere sempre vigile, pronto ad afferrare ogni lampo di bellezza, anche il più inatteso. La musica è un terreno assai fertile per questa particolare ricerca e non è un caso che tra le molte opere di Renoir che accarezzano l’argomento ci siano anche i capolavori-chiave della sua esperienza artistica, come Il palco, ritenuto da Roberto Longhi “il dipinto forse più felice dell’era moderna”, e il Moulin de la Galette, presenza fissa di ogni libro sull’impressionismo.



Le radici di questo interesse risalgono probabilmente agli anni dell’infanzia, quando Renoir, dotato di una bella voce, viene accolto nel coro della chiesa parigina di Saint-Eustache, diretto da Charles Gounod, all’epoca ancora sconosciuto al grande pubblico. Stupito dalle ottime capacità del ragazzo, Gounod gli dà lezioni private e lo sprona a tentare la carriera di cantante professionista. Renoir però sogna un futuro diverso e, non appena gli viene proposto di lavorare come decoratore in un atelier di porcellane, acchiappa al volo l’offerta e abbandona le lezioni di canto. Ha così inizio la storia del Renoir pittore che tutti conosciamo, una storia nella quale la musica continua comunque ad avere un ruolo fondamentale, che non verrà meno neppure negli anni della vecchiaia, come dimostra l’entusiasmo con cui nel 1911, in una Parigi stregata dai Balletti Russi di Djagilev, Renoir metterà da parte i fastidiosi problemi di salute per assistere alla Petruška di Stravinskij.



Attratto tanto dai grandi nomi del passato (Johann Sebastian Bach e Mozart su tutti) quanto dai contemporanei Offenbach e Chabrier, il pittore francese trova nell’attività di ritrattista un ottimo appiglio per approfondire la sua passione per la musica. Tra i compositori e i musicisti che hanno posato per lui, oltre a un buon numero di connazionali, dal talentuoso Benjamin Godard al bizzarro Ernest Cabaner, trova posto anche Richard Wagner. Il fugace incontro con l’autore de L’anello del Nibelungo, avvenuto a Palermo nel gennaio 1882, si rivela inferiore alle attese. Renoir e Wagner parlano di pittura, dell’impressionismo in musica e dell’antipatia, comune a entrambi, per Meyerbeer, ma tra loro non nasce alcuna amicizia. Anzi, con molta probabilità, è stato proprio quell’incontro a favorire l’avversione di Renoir per Wagner, un sentimento confermato dal giudizio che il pittore esprimerà qualche anno dopo, a Bayreuth, dopo aver assistito a una rappresentazione della Valchiria: “Non si ha il diritto di rinchiudere la gente al buio per tre ore. (…) Si è costretti a guardare l’unico punto luminoso: la scena. È una vera tirannia! Mi può venir voglia di guardare una bella donna in un palco. E poi, siamo sinceri. La musica di Wagner è molto noiosa!”. 



Del teatro, infatti, stando alla testimonianza del figlio Jean, noto regista cinematografico e autore della biografia Renoir mio padre (1962), al pittore interessa soprattutto la dimensione sociale: “Il lato ‘festa’ era per lui assai importante. Noi andiamo a teatro per seguire un intreccio, o l’esposizione di determinati caratteri, cose di cui mio padre si disinteressava completamente. Andava a teatro come si va a passeggiare in campagna la domenica, per godersi l’aria buona, il profumo dei fiori, e soprattutto la gioia degli altri. E aveva il dono di concentrarsi su una sola impressione, in mezzo a dieci impressioni differenti”. 

Si capisce, quindi, come la musica sia stata per Renoir una delle migliori scorciatoie per portare in superficie quelle emozioni e quei sentimenti che la vita di tutti i giorni spesso tiene in gabbia. Un chiaro esempio viene dalla contagiosa allegria del Moulin de la Galette, con la quale riesce a celebrare in modo indimenticabile un momento di festa che ancora oggi, a più di cent’anni dall’esecuzione del dipinto, non sembra volersi fermare. In quel chiasso, in quel miscuglio di musica e frastuono, c’è tutto l’amore di Renoir per la bellezza, un amore che l’artista si impegna a consolidare giorno per giorno. Non è un caso che, fino agli ultimi momenti della sua vita, anziché lamentarsi per i molti dolori e piangersi addosso, Renoir continuerà instancabilmente a dipingere, lasciandosi sedurre dalla gioia di vivere, nella consapevolezza, confidata a Matisse, che “la sofferenza passa, ma la bellezza resta”.