Ho cominciato a leggere Ray Bradbury da Cronache Marziane quando ero alle scuole superiori e non ho più smesso. Ho letto  piu volte le sue cose migliori, a partire da Fahrenheit 451 (di cui adoro anche l’immobile trasposizione cinematografica firmata da Truffault) e il Popolo dell’autunno, ma non mi son fatto mancare nemmeno le sue cose più folli come Morte a Venice, spumeggiante pseudo mistery ambientato nella città gioiello californiana, oppure le raccolte horror Molto dopo mezzanotte e La follia è una bara di cristallo (che raccolgono spunti di autentica paura, tra demoniache presenze e bizzarre antropofagie di gruppo). 



Se è vero che il racconto era forse il suo modello letterario preferito e se la fantascienza gli ha dato la celebrità che lo accompagnerà nei decenni di produzione letteraria, è anche vero che Ray ha scritto sceneggiature cinematografiche, saggi, libri per ragazzi, pièce teatrali e decine di articoli per testate californiane,  alternando visionarietà noir a un buon umore vicino a quello di Alfred Hitchcock (con cui ha lavorato) e Walt Disney, suoi amici carissimi.



Più continuo di Fredric Brown, meno strettamente ancorato alla science fiction di Heinlein (tanto per citare autori suoi amici), Bradbury non ha mai avuto rapporti con Asimov e Clarke, con cui pure condivide l’olimpo della fantascienza, ma verso cui non aveva interesse perché, diceva, la letteratura di pianeti e astronavi non suscitava in lui alcun interesse: aveva curiosità solo per le storia di uomini che nel futuro si trovavano a che fare con gli stessi problemi del nostro presente o del passato  remoto. 

Gli altri hanno scritto decine di titoli, lui invece poche cose, eppure sublimi. Non lo si può considerare un geniaccio letterario del Novecento ma sta di fatto che Bradbury, come spesso si legge, ha umanizzato la fantascienza. Non avendo gli interessi astrofisici, cibernetici o matematici che muovono gente come Robert Sawyer, Stanislaw Lem o Ben Bova, Bradbury ha concentrato la sua attenzione su quale sarà la fine dell’uomo, delle sue verità, della sua memoria nei possibili futuri che l’attendono. Come la metterà l’uomo quando si troverà alle prese con la giustizia, la sacralità, la ricerca di senso, la fratellanza, la morale, mentre intorno a lui sfrecciano le astronavi e dominano i robot. Questo era il suo tema. Chi ama 2001 Odissea nello spazio, Blade Runner e Solaris sa di cosa parliamo.



Tra le altre cose, le opere di Bradbury si sono intrecciate più e più volte con il senso d’attrazione dell’uomo per il divino e con la sua tradizione religiosa. Nelle Cronache, gli uomini scoprono stupiti che i marziani vivono ormai in uno stato di perfetta comunione con il divino, cosa che gli permette di non avere religioni o sacerdoti mediatori. 

In Fahrenheit 451 gli uomini che Montag incontra al termine della sua fuga portano nomi biblici − Genesi, Deuteronomio… − perché essi sono il loro compito, cioè esprimono la propria vocazione personale avendo imparato ognuno un libro della Bibbia, visto che tutti i Libri Sacri del pianeta sono ormai stati bruciati dalle squadre di incendiari del potere assoluto. 

Bradbury però, a differenza dei teologi della fantascienza (come Heinlein e Zelazny, ed anche più tardi Phil Dick) aveva interesse per il rapporto umano con il divino, più che per le sue ipotetiche forme sociali. Diceva sempre che il Vangelo di san Giovanni era il suo libro preferito. La forma dell’amore era quella che lo attirava nella sua fede un po’ giocosa e un po’ universalista.

E così − come a volte accade nella fantascienza, dove i racconti offrono sprazzi unici, come mostrato da due capolavori come Sentinella e Risposta, di Fredric Brown − il vertice della sua fantascienza biblica Bradbury lo raggiunge in un racconto presente in un opera “minore” come L’uomo illustrato. Il racconto è L’uomo, storia di un’astronave che vaga per i pianeti d’una lontana galassia per incontrare nuove forme di vita. Su un pianeta accade qualcosa di insolito: gli abitanti non sono per nulla interessati ad incontrati gli astronauti terrestri. Motivo? Sono troppo occupati ad ascoltare un visitatore giunto da pochi giorni che gli sta aprendo gli occhi sulla vita e sulla morte, sulla bellezza e sull’amore. Chi è questo visitatore? Da dove viene? Cosa vuole? “È colui che tutti attendono, da sempre”. Nel racconto riaccade piu o meno quello che sulla Terra è accaduto tra Betlemme, Cafarnao e Gerusalemme. 

L’epilogo è figlio del genio di Ray. Il capitano Hart esplode con le sue nevrosi, incapace di credere che il divino possa essere cosi vicino a lui, mentre il più concreto, l’astronauta Martin, capisce e va ad incontrare quell’uomo, mescolandosi alla folla di quel pianeta lontano. Bradbury l’ha scritto nel 1948, quando aveva solo 28 anni. Ieri se n’è andato, novantunenne. Chissà quali cronache astrali potrebbe scrivere, ora sta vedendo tutto e non deve più “immaginare”.