«Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo?». Così Cesare Pavese commentava ne Il mestiere di vivere in data 14 luglio 1950 il successo al premio Strega, sperimentando l’amarezza di una vittoria che non appagava il suo desiderio di felicità. In maniera analoga, quasi presago del destino favorevole che il suo romanzo avrebbe incontrato, Alessandro Piperno (1972), il vincitore di quest’anno del Premio letterario più ambito in Italia, ha posto come incipit della sua opera una frase del tennista Andre Agassi sull’inanità della fama: «Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quanto è dolorosa una sconfitta».
Il Premio Strega contempla tra i suoi vincitori nomi che hanno fatto in parte la storia della letteratura del Novecento, da Pavese (1950) a Moravia (1952), da Dino Buzzati (1958) a Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1959). E con loro nel novero ancora Elsa Morante (1957), Carlo Cassola (1960), Giorgio Bassani (1956). Talvolta il premio consacra un autore già affermato riconoscendone il valore e il pregio o viceversa, altre volte, tramite il premio uno scrittore entra nel numero degli autori affermati. Nella storia dello Strega troviamo grandi letterati che hanno visto riconosciuto il loro talento e la loro carriera artistica con la vittoria (si pensi a Pavese che ottiene il Premio proprio pochi mesi prima del suicidio) e altri che conseguono l’alloro poetico con l’opera prima: quattro anni fa il giovanissimo Paolo Giordano vinceva con La solitudine dei numeri primi, romanzo che avrebbe poi riscosso anche un notevole favore di pubblico.
Alessandro Piperno non appartiene a nessuna delle due schiere: non è un giovanissimo, ma non è neppure uno sconosciuto. Anzi, il suo primo romanzo è quel Con le peggiori intenzioni (2005) che ha venduto oltre 200mila copie e ha conquistato il Premio Viareggio e il Premio Campiello come opera prima.
Da qualche anno Piperno stava lavorando al dittico Il fuoco amico dei ricordi. La prima parte intitolata Persecuzione è uscita nel 2010. La seconda parte, Inseparabili, è il romanzo che ha vinto il Premio Strega 2012.
Nella famiglia Pontecorvo i due fratelli, Filippo e Samuel, apparentemente molto differenti tra loro, sono come «due pappagalli che non possono stare l’uno senza l’altro, se possibile ancor più dei Fantastici quattro». «Scambiarsi insulti e volgarità: questo il modo virile in cui i due fratelli da tempo immemorabile» non smettono «di volersi bene».
Disilluso e cinico, Filippo vuole vivere senza aspettarsi nulla dalla vita. Questo è il suo programma: «Nessun orgoglio, nessuna ambizione e, soprattutto, nessuna dignità da difendere». Sembrerebbe, a prima vista, una sorta di proclama di antiestetismo, antidannunzianesimo. Antitesi di Andrea Sperelli, Filippo è riuscito «là dove la maggior parte delle persone falliscono: nel non darsi troppa importanza», ha imparato «precocemente a diffidare della felicità».
L’archetipo di questa figura è senz’altro il personaggio decadente, in primis i protagonisti sveviani, con un’ipertrofica coscienza di sé e una sottile ironia che colpisce in primo luogo se stesso. Così l’autoironia pervade tutta la narrazione come quando la moglie di Filippo, Anna, arrabbiata col marito per il successo che lui sta incontrando senza troppa fatica laddove lei l’ha sempre ricercato senza mai raggiungerlo, decide di chiudergli «le saracinesche del sesso» o ancora quando il narratore racconta che per Filippo Cannes non ha alcuna importanza, ma che per un tipo come Anna è «la Terra promessa (che Cannes non stia per Canaan, allora?)».
Un po’ nevrotica, fragilissima nel corpo e nella psiche, affettivamente instabile, Anna esercita su di lui un fascino sessuale irresistibile, ancor più quando racconta le sue esperienze sessuali che a soli quindici anni ebbe con il migliore amico del padre. C’è un compiacimento esagerato da parte dello scrittore nel soffermarsi sugli aspetti dell’intimità di coppia. La forza di Anna, a suo dire, è che a differenza di molte altre donne lei non conosce tabù tanto che afferma: «Non avere un corpo certe volte può essere vantaggioso. Per esempio ti impedisce di avere tutta quell’ansia di preservarlo. E forse fu questa la ragione per cui mi consegnai ad un uomo dell’età di mio padre […]. Lui poteva fare di me quello che voleva». Quella voglia di trasgressione, di sessualità svenduta e rappresentata che tanto accomuna il cattivo gusto della società e dei mass media di oggi attraversa anche questo romanzo. Proprio come ne La noia di Moravia, il sesso è la modalità unica di rapporto tra i due coniugi, «l’unico luogo che i due» non hanno «mai osato inquinare con le scorie delle rispettive nevrosi».
Il trentasettenne fratello di Filippo, Samuel, sta per sposarsi con Silvia, ma vive una relazione con Ludovica, ragazza di ventuno anni, mentre la madre Rachel, dopo la drammatica vicenda dell’accusa di pedofilia mossa al marito Leo Pontecorvo, assomiglia ora un po’ ad un «supereroe» con la sua «incondizionata dedizione alla causa, astinenza, castità, solitudine».
Piperno affastella un turbinio di flashbacks, sulla scia dell’amato romanziere francese Marcel Proust, cosicché il lettore ricostruisce «il tempo passato» (o perduto?) dei protagonisti. Certamente, non mancano al romanziere la vena narrativa e la capacità linguistica. Mancano, invece, ai suoi personaggi e alla storia qui raccontata, una speranza, una possibilità di redenzione e di cambiamento. Sembra prevalere lo squallore del già sentito, del già visto, di ciò che viene tanto sbandierato come ineluttabile, dal tradimento all’incapacità di amare, dal cinismo alla disillusione sulla vita: «Non c’è dono per cui alla fine non ti venga presentato il conto».
Se è vero, come è vero, che il romanzo è specchio dei propri tempi, senz’altro Inseparabili testimonia la crisi e la nevrosi dell’uomo contemporaneo, il tanto spazio concesso alla psicologia e alla sessualità.
Ma è anche vero che la grande arte sa rendere conto non solo della mediocrità e della bassezza dell’uomo, ma anche dell’ideale e dei valori a cui la persona aspira. Qui, invece, questo non accade. L’aspirazione all’amore, al bello, al vero, al buono, al giusto è un tratto del tutto assente. Invece, la normalità a cui si adeguano i personaggi del libro è fatta di tradimenti, di invidie, di menzogne, di abnorme e disinibita presenza del sesso, fatto con chiunque e in ogni modo. Personalmente, sono stanco di vedere rappresentata nei romanzi di oggi questa realtà come se fosse l’unica possibilità a cui l’uomo possa guardare. Credo anche che tante pagine dedicate alla masturbazione, al sesso orale e ad altro ancora possa catturare un certo tipo di pubblico, ma nuoccia alla qualità artistica del romanzo.
Evidentemente tanti critici e lettori trovano ormai normale che un romanzo si soffermi e racconti questi atti che non sono così necessari alla vicenda. Non è una questione di moralismo, ma di decenza, di buon gusto, di bellezza che sono deturpati dall’oscenità sbandierata e compiaciuta. Sentiamo direttamente Piperno in questo passaggio: «Aveva assistito con un certo fastidio, venato di preoccupazione, alla progressiva degenerazione dei costumi di Gaia, che aveva raggiunto il suo acme nella sfida da lei lanciata alla sua room-mate australiana a chi un sabato sera sarebbe riuscita a fare più […] al maggior numero di uomini». Di queste situazioni è pieno il libro che può, su questo campo, quasi competere con l’ultimo Fabio Volo di Le prime luci del mattino.