Chi ha visto il film The Way Back di Peter Weir potrebbe chiedersi cosa ci facesse un ingegnere americano fra i detenuti che popolavano il campo di lavoro sovietico situato sopra il lago Bajkal: d’accordo per l’«internazionale del dissenso» composta da polacchi, croati e baltici, ma la presenza dell’enigmatico e carismatico mister Smith potrebbe far pensare a un tributo culturale che vuole per forza un eroe yankee. In realtà, come ha spiegato il regista, «è l’unico nome che ho mantenuto dal libro di Rawicz [il testo controverso che lo ha ispirato]: ho conservato il suo nome e la sua nazionalità, e il fatto che avesse lavorato per la metro di Mosca come ingegnere. Poi ho costruito il personaggio utilizzando notizie sugli americani scomparsi in Urss: furono migliaia, la maggior parte di essi non fece mai più ritorno. Non tutti erano simpatizzanti comunisti, molti scappavano a causa della crisi economica innescata dalla Grande Depressione e fecero persino fortuna durante il periodo staliniano, prima che il regime si scagliasse contro di loro».



Basterebbero queste poche righe per riassumere le drammatiche vicende di questi americani salpati negli anni 30 verso l’Urss per trovare… l’America, e raccontate più ampiamente nel libro di Tim Tzouliadis, I dimenticati, tradotto e uscito per Longanesi nel 2011. 

La causa scatenante di questo flusso migratorio sui generis è quanto mai attuale: con un tasso di disoccupazione che colpiva un quarto della forza lavoro, milioni di americani facevano la fila presso le mense pubbliche e vivevano nelle baraccopoli. A molti sembrò che fosse possibile costruire una società più a misura d’uomo proprio nella Russia staliniana, dove le fabbriche assumevano operai specializzati, tecnici ed ingegneri. E queste fabbriche – si leggeva sulla stampa – mettevano a disposizione anche scuole materne, ambulatori, biblioteche, luoghi per la ricreazione.



Quando l’ufficio sovietico del commercio con l’estero pubblicizzò l’offerta di posti di lavoro, in migliaia si mossero. Gli operai qualificati – ricorda Tzouliadis – avevano persino diritto al viaggio pagato verso il Paese in cui la disoccupazione era stata ufficialmente dichiarata scomparsa. C’era persino chi, non avendo una qualifica particolare, partiva ugualmente come turista per poi fermarsi in Urss non appena trovata un’opportunità di lavoro. A spingere gli emigranti fu anche la cecità o la malafede di molti intellettuali occidentali per i quali la rivoluzione sovietica era ancora carica di speranza, che vedevano nella crisi economica il segnale della fine della civiltà tradizionale, e che teorizzavano di «prendere il comunismo ai comunisti» per trapiantarlo in America.



Erano gli anni in cui Stalin voleva che si producesse «a tutto vapore», quando dopo aver «spezzato la colonna vertebrale della vecchia ingegneria russa», l’Urss aveva bisogno di tecnici e tecnologia occidentali per stare nei ritmi fantasiosi dei piani quinquennali. L’America divenne modello e oggetto di venerazione, per Stalin occorreva combinare «lo slancio rivoluzionario russo» con il «senso pratico americano»: così la Cooper partecipò alla costruzione della centrale sul Dnepr e grazie alla Ford aprì la fabbrica automobilistica Gaz.

Nei primi anni 30 gli americani presenti a Mosca e in altre grandi città erano in numero tale da giustificare la pubblicazione di un giornale in inglese, e il baseball ebbe un successo popolare al punto da indurre le autorità sovietiche ad introdurlo come sport nazionale. I figli degli immigrati frequentavano scuole in lingua inglese dove però venivano debitamente indottrinati, chiamavano i loro insegnanti «compagni» e indossavano i fazzolettini dell’Organizzazione giovanile comunista. Come disse il poeta Mandel’stam, «credono che tutto sia normale perché funzionano i tram».

Poi, improvvisamente, nel ’37 iniziarono le Grandi purghe che colpirono anche gli stranieri e chiunque avesse legami con loro. 

Ciò che lascia ulteriormente allibiti è che le richieste di aiuto dei detenuti americani, giunte spesso dopo rischiose peripezie all’ambasciata, furono insabbiate dagli stessi diplomatici a Mosca e dai funzionari a Washington, che ignorarono i loro sventurati compatrioti.

Avrebbero potuto salvarli? Stalin era sufficientemente furbo per accontentare un partner commerciale come gli Usa; tuttavia in quegli anni a Mosca era ambasciatore J.E. Davies, un ammiratore del dittatore sovietico che amava assistere ai processi contro i «nemici del popolo» e autore del best-seller filosovietico Mission to Moscow.

Una seconda ondata di americani, circa 3mila, finì nei lager sovietici al termine della seconda guerra mondiale, quando l’Armata rossa entrò nei campi di prigionia nazisti e l’Urss si rifiutò di restituire questi uomini o addirittura di riconoscerne l’esistenza. Con l’inizio della guerra fredda, di costoro si persero le tracce. Pochi furono i superstiti che hanno lasciato memorie, fra i quali Victor Herman e Thomas Sgovio.