Quando le parole mancano il loro significato e finiscono per dire cose differenti da quello per il quale sono state usate nel linguaggio comune, accade ciò che Hannah Arendt denunciava del mondo moderno rispetto alla perdita del senso comune.

Un esempio? La mostra appena inaugurata a Civitanova Marche, all’interno della kermesse di Popsophia, dal titolo Il vangelo secondo Jobs. Apple tra tecnica e filosofia, va purtroppo nel senso su indicato. Sembrano ne siamo convinti gli stessi curatori della mostra che parlano non di una semplice ricognizione cronologica dei prodotti Apple, a un anno dalla scomparsa del suo padre-fondatore, ma di un vero e proprio “viaggio iniziatico verso la ricerca della massima purezza”.



Questo è, pertanto, il motivo per il quale, ad esempio, l’iPad viene mostrato al pubblico su un altare o viene raffigurato Jobs come un’icona religiosa benedicente, con tanto di aureola e, chiaramente, mela tra le mani. E tuttavia, più che di un santità (da sacer = sacro) si dovrebbe parlare di feticcio (factitium = manufatto artificiale). E credo che lo stesso Steve sarebbe d’accordo con chi scrive: lui che ha sempre rifiutato ogni definizione perentoria per sé e per la sua creatura, discutendo con tutti e mettendosi sempre in gioco, con un unico obiettivo: vivere la propria vita come se fosse l’ultimo, certo che il proprio cuore – come amava dire in più di un’occasione – non tradisce mai e disegna con pazienza i “puntini della propria storia”.



Ma al di là di queste semplici questioni semantiche, ciò che i curatori italiani mostrano – o vogliono dimostrare, tradendo lo spirito jobsiano – costituisce l’esatto inverso della vicenda umana e lavorativa del fondatore della Apple che appare molto simile a quella di tanti imprenditori che, nonostante insuccessi e battute di arresto, non hanno mai smesso di avere fiducia e passione per il proprio lavoro e le proprie idee. Ed infatti, che differenza c’è tra la vicenda di Jobs e quella di uno dei tanti imprenditori la cui azienda è stata colpita dal recente terremoto in Emilia? 



Questa è l’altezza delle domande alle quali occorre dare risposta per poter rimanere nel cammino tracciato dalla parabola di Jobs, senza farne il feticcio di una religione laica, inutile per chi la crea (a meno che non si tratti di una strategia di marketing) e dannosa per chi la professa.

Certo: molte delle aziende italiane colpite dal sisma emiliano non arriveranno mai a essere quotate in Wall Street, ma la lotta per ricominciare, la cura per il proprio lavoro, la passione per i prodotti e l’attenzione verso i propri dipendenti e le loro famiglie, non si misurano dal successo della propria quotazione o del proprio portafoglio.

A volte la realtà colpisce duramente, ma è proprio allora che si vede quale sia la vera natura dell’uomo, e da cosa dipenda: se dipende dalle proprie ed esclusive capacità, se – ancor peggio – dipende da un qualche santone (o da un qualche potere) con il compito di alleggerire apparentemente le circostanze della vita, o se dipende da quel desiderio infinito di bellezza, di bontà e di verità di cui è fatto il cuore dell’uomo. 

Questo è il motivo per cui a nessuno, neanche a Steve Jobs, ha mai interessato vivere la vita di altri, né la parabola del fondatore della Apple potrà interessare se non a partire da se stessi e dalle proprie circostanze seguendo, come Jobs stesso disse nel famoso discorso all’Università di Stanford il 12 giugno 2005, “il proprio cuore e le proprie intuizioni. Loro sanno, in qualche modo, quello che già siamo e quello che vogliamo diventare”.