Caro direttore,
Sono ospite di mio figlio in un piccolo villaggio di una valle svizzera con qualche centinaio di abitanti. Tutte le case sono ancora di legno e risalgono al seicento e al settecento. La casa di mio figlio è in mezzo al bosco dove è possibile vivere dimenticando il rumore del mondo. Di fronte alla casa ci sono imponenti montagne che raggiungono i duemila-tremila metri di altezza. Nelle sere limpide si vede la luna sorgente apparire e scomparire dietro le punte più alte dei monti.
Descrivo questa situazione perché questo magico contesto mi dà per la prima volta la sensazione di una estraneità al mondo che mi lascio alle spalle come se ne stessi prendendo congedo in modo definitivo. Le grandi montagne sono di per sé la testimonianza di una potenza che ha consegnato il mistero del mondo alla bellezza inquietante della natura. La tua breve vita e la tua mortalità si trovano di fronte all’abisso della creazione e ogni volta si rinnova questo tuo stupore e questo senso di piccola parzialità in confronto con la enormità che dovunque manifesta la forza e la potenza della natura.
In questo contesto così stimolante mi sono sentito come se dovessi continuare a rispondere alla domanda sul senso dell’accadere nella dimensione quotidiana di tutti i giorni. Gli ultimi commenti e articoli che ho avuto modo di leggere sui giornali, però, mi hanno completamente saturato come se avessi visto prender corpo in modo visibile alla scomparsa del pensiero creativo.
Sui giornali ho avuto modo di leggere infatti notizie che, da sole, dovrebbero spingere a superare il livello della nostra chiacchiera quotidiana sullo spread e sui mercati. Sembra che sia stata scoperta la famosa “particella di Dio”, il bosone, che, come tutte le scoperte della fisica, dovrebbe spingere qualsiasi essere pensante ad interrogarsi sul significato cosmico di una scoperta che sembrerebbe avere individuato il mattone primo del nostro universo. In altre pagine ho letto che prossimamente saranno prodotti dei microchip con la mappatura del genoma che potranno essere incorporati in ciascuno di noi per rendere possibile un aggiornamento a vista dei prevedibili comportamenti che ci accingiamo a tenere.
Due eventi dirompenti. Eppure un concomitante, recente editoriale di Eugenio Scalfari, che è sicuramente l’esponente più illustre del giornalismo riflessivo, si limita a raccontare, come se fosse in un salotto di amici, la sua conversazione con Mario Draghi che lo confortava nelle sue conclusioni sulla necessità di difendere l’euro ad un livello più politico e unitario, spingendolo ad auspicare che Mario Monti perseveri efficacemente nella sua politica di difesa della moneta unica.
Non intendo disprezzare questo livello della riflessione giornalistica ma non posso non restare colpito dalla mediocre pochezza di un giornalismo che anche nelle sue figure migliori si presta ormai soltanto a discutere di spread e mercati. L’unico articolo che ha suscitato in me una sincera reazione emotiva è stato quello di Luca Mercalli, apparso sulla Stampa, nel quale l’autore cercava di ricordare che sotto l’apparenza della quiete e della chiacchiera quotidiana noi stiamo vivendo sul filo dell’abisso ignorando totalmente tutti gli eventi naturali, dai terremoti alle alterazioni drammatiche del clima, dal depauperamento delle foreste e dei laghi alla devastazione dell’ambiente sotto la spinta speculativa dello sfruttamento immediato di ogni risorsa.
Secondo Mercalli la vita del pianeta e della terra, i suoi sussulti, le sue dinamiche, le sue rabbie improvvise e le sue straordinarie bellezze non appartengono più al discorso dell’uomo. Il discorso dell’uomo si è miseramente ristretto alle sue condizioni economiche, ai suoi consumi e alla sua contabilità monetaria. Non si avverte più nessuna inquietudine profonda che interpelli il senso della vita sul pianeta, non tanto per riflessioni filosofiche e metafisiche ma per le evidenti implicazioni che riguardano il modo di stare al mondo e di vivere le dimensioni quotidiane delle nostre attività.
Ciò che mi colpisce è la mancanza di reattività, specialmente delle élites intellettuali che dovrebbero stimolare le capacità critiche dell’opinione pubblica. Faccio un esempio a caso. Il sottosegretario De Gennaro ha espresso solidarietà ai poliziotti condannati per le terribili atrocità che sono state compiute al G8 di Genova. Nessuno mi risulta si sia indignato sui grandi giornali quotidiani e sui media per questa assurda solidarietà con autori di reati condannati con sentenza di un giudice italiano. De Gennaro è uno dei personaggi più inamovibili della Repubblica e, allo stesso tempo, al centro di una quantità di fatti inquietanti e mai chiariti. Allo stesso modo, l’ex ministro Mancino continua ad attaccare le procure della Repubblica senza che si riesca a fare mai chiarezza sulla ormai famosa trattativa fra Stato e mafia. Invece di occuparsi del grande problema del doppio Stato e di sollevare una volta per tutte il tema della verità della nostra Repubblica, gli intellettuali italiani preferiscono parlare del ritorno di Berlusconi chiedendosi se Bersani sarà in grado di costruire un’alternativa, senza rendersi conto che la maggioranza degli italiani non ha proprio alcun interesse a conoscere le intenzioni segrete di questi illustri personaggi che ormai da anni occupano la scena.
Il clima che avverto è quello di un disarmo generale dove si è perso il senso della responsabilità che ciascuno ha di fronte alle vicende del mondo che lo circonda. Ciò che rende insopportabile questa situazione è proprio questa rarefazione delle opinioni, questa rinuncia a ogni invettiva contro gli abusi e le prepotenze, questo disimpegnarsi rispetto al proprio ruolo: in definitiva, questa assenza di azioni che diano davvero il senso di una reazione all’andazzo mortifero delle giornate che si susseguono con i notiziari delle borse in prima battuta.
Non credo che il problema sia soltanto del linguaggio che ottunde i pensieri anziché stimolarli e di questa sorta di apatia rassegnata che oramai rappresenta lo spirito di un popolo stanco e declinante, ma l’assenza di gesti capaci di testimoniare concretamente la novità di una scelta che vuole essere anche modello per altri. Ciò che stiamo dimenticando infatti è che il mondo non è quello dei giornali o dei media ma quello in cui un uomo si sveglia la mattina e, cercando di dare un nuovo corso alla propria vita, compie un piccolo gesto inusuale, come persino quello di accompagnare una persona anziana ad attraversare le strisce pedonali di una strada o di offrire una granita all’usciere del proprio ufficio. Nella crisi del linguaggio pubblico, la rottura può essere soltanto una testimonianza concreta, un’assunzione di responsabilità verso il proprio agire che manifesti davvero la volontà di cambiare il mondo delle cose esistenti.
Non so perché mi vengono sempre alla mente le scene del film di Pasolini sul Vangelo secondo Matteo. Vedo in quel film un uomo di oltre duemila anni fa che, vestito soltanto con una tunica e un mantello, si aggira per le strade della Palestina invitando pescatori e poveri artigiani a seguirlo. Vedo le scene del discorso sulla montagna in cui migliaia di uomini e donne semplici ascoltano le magiche parole dell’amore del prossimo, l’ira e l’invettiva contro i mercanti del tempio e mi domando: chi era quest’uomo che oltre duemila anni fa è stato capace di esprimere con gesti semplici e con il sacrificio di se stesso il bisogno di ribellarsi ad un mondo di conformismi e di bieche complicità di potere?
Le montagne che guardo di notte mi fanno pensare che ciò che manca all’epoca in cui viviamo è la capacità della grande profezia e la forza di una testimonianza capace di pagare il prezzo della propria vita. Ma un popolo che non riesce a trovare più nessuna voce che alluda profeticamente ad un futuro oltre l’orizzonte, è destinato a marcire nella palude dell’apatia.