Nel contesto attuale della gravissima crisi economica e politica europea le notizie che arrivano dalla Siria e dalle altre aree extra-europee dove sono in corso guerre civili (Afghanistan, Libia ecc.) in genere vengono percepite dall’opinione pubblica occidentale come un rumore fastidioso che ci distrae dalle questioni veramente importanti. Impossibile occuparsi dei guai altrui quando la propria casa brucia. Persino la questione della pace e dei diritti umani diviene secondaria in questo frangente. Eppure una riflessione sulla geopolitica interazionale e sui suoi cambiamenti dalla caduta del Muro di Berlino è necessaria se vogliamo evitare di ripetere errori che costano assai in termini umani ed economici.
L’ultimo decennio del secolo scorso è stato caratterizzato dalla manifestazione eclatante di un fenomeno che ha radici tanto antiche quanto la modernità, la globalizzazione. Ricordiamo tutti i “meravigliosi” anni della presidenza Usa di Bill Clinton. Sviluppo economico, caduta delle barriere commerciali, popolarità del modello politico liberal-democratico, diffusione apparentemente irresistibile dell’american way of life. Era il periodo in cui divenne popolare un’espressione che oggi suona invece inquietante: “giocare in borsa”. Qualcuno parlava di “fine della storia”, intendendo con ciò l’assenza di ogni seria alternativa al modello sociale liberista e liberal-democratico. Le dittature sembravano avere i giorni contati. Nasceva l’Unione europea e infine un sano e robusto euro (almeno così sembrava).
Con l’11 settembre 2001 l’espressione che sembrò spiegare la nuova e inquietante situazione fu “scontro di civiltà”. Le alleanze geopolitiche obbediscono ora a logiche più identitarie che economiche dove le tradizioni religiose giocano ovviamente un ruolo principale. L’economia mondiale prima frena la sua corsa e poi fronteggia una serie di fasi recessive più o meno locali. Gli interessi nazionali riprendono vigore persino in Europa a discapito della costruzione comunitaria.
L’elemento di differenza tra l’ultimo decennio del secondo millennio e il primo decennio del terzo che mi interessa sottolineare è il seguente: quel modello politico liberal-democratico che dapprima sembrava diffondersi per moto proprio, ora necessita di venire esportato con la forza. E anche la libertà di commercio necessita sempre più di un “tutoraggio” politico e militare. Nascono nuovi micro-conflitti giustificati dalla necessità di estirpare il terrorismo o di prevenirne la diffusione, di difendere la popolazione civile da dittatori “sanguinari”, di rinforzare la pace. Ci familizziamo con espressioni come “intervento umanitario”, “guerra preventiva”, “peace-keeping/enforcing” ecc.
Che bilancio trarre da tale metamorfosi della guerra? Entro la fine del 2014 tutte le truppe Nato si ritireranno dall’Afghanistan. Che situazione lasceranno? Analoga domanda si dovrà fare per l’Iraq. Possiamo poi tutti condividere le parole dell’ex ministro degli esteri francese Alain Juppé: “Sono fiero di quello che abbiamo fatto in Libia?”.
Domande simili si è fatto in questi giorni Tzvetan Todorov dalle pagine di Repubblica, introducendo la categoria di tragico per indicare che molto spesso, di fronte a situazioni come quella libica o siriana, ci si trova di fronte a situazioni politiche che “non sono migliorabili attraverso interventi radicali”. Il tragico, in altri termini, ci pone davanti ai limiti intrinseci della politica degli Stati e della sua continuazione “con altri mezzi”, la guerra. È una buona occasione per riprendere coscienza del fatto (come ha ribadito Francesca Bonicalzi da queste colonne) che, se la pace è anche un problema della politica, non ci si può però attendere dalla politica la pace. E nemmeno dalla guerra. Una piccola grande verità di cui ultimamente ci siamo scordati.