Franco Perrelli, professore di Discipline dello spettacolo all’Università di Torino, nonché grande esperto di teatro e letterature nordiche, certamente sapeva che scrivere un romanzo è cosa ben diversa dalla stesura di un saggio, di un commento o di una traduzione: un romanzo, per sua natura, necessita di quella “finzione” che sola, in questo genere, permette l’accesso ad un fianco della realtà difficilmente penetrabile altrimenti. Un romanzo è l’esplorazione di una possibilità fino alle sue estreme conseguenze, è la compromissione di se stessi e del proprio sguardo in favore del racconto: per arrivare ad una trasparenza della realtà. Non si può raccontare qualcosa se non la si è in qualche modo attraversata – non si può narrare senza un inesorabile desiderio di capire. E questo può comportare un sacrificio, può costare del sangue: paradossalmente, la finzione romanzesca costringe prepotentemente a fare i conti con il mondo. Cos’è infatti un personaggio se non una possibilità dell’essere, ancora inesplorata?



Quella di Marcello Magni, protagonista di questo primo romanzo di Franco Perrelli (Il padre e il figlio, Edizioni di Pagina), è appunto una storia sanguinosa: sanguinosa non per l’efferatezza dei contenuti, ma perché è in qualche modo la vicenda di una ferita. Marcello Magni è un attore famoso, in età ormai avanzata, in crisi per motivi che neanche lui sa ben spiegarsi: senso di colpa per un successo che sente di non meritare, scontentezza nei confronti della propria professione e della propria vita, il sospetto di un grave problema di salute. In questa situazione, si trova a dover ospitare in casa sua nientemeno che suo figlio, un ragazzo di undici anni avuto in seguito a un rapporto occasionale con la maschera di un teatro, anni prima – un figlio mai visto, mai accettato. Ma è questo figlio a rimettere in discussione la vita di Marcello Magni, in un modo che è tutto sorprendente, destabilizzante – sempre diverso da come ce lo si aspetterebbe, diverso e inaspettato come sempre sa essere la vita quando irrompe. E anche quelle che nel romanzo possono sembrare delle ingenuità linguistiche o narrative sono come “salvate” dal baluginare di questi momenti, in cui i personaggi – e, insieme, il romanzo stesso – sono rivelati a se stessi, illuminati in quella sorpresa (del lettore e del personaggio) che sola permette un attimo di vera conoscenza.



Il romanzo riesce ad essere tante cose insieme. È anche e soprattutto un “romanzo teatrale”: e in questo senso il professore non ostacola il romanziere, ma gli viene in soccorso. Molti sono i punti in cui ad essere rivelata è la vocazione teatrale, il suo nascosto segreto: la pratica del teatro, la risposta alla chiamata di un mestiere così particolare, emerge in tutta la sua natura misteriosa – e che come mistero, come un inoltrarsi nel mistero, va affrontata.

Il romanzo è anche un particolare saggio sulla paternità. Ma lo è in un senso tutto diverso da una paternità intesa come tutela – al contrario: qui viene descritta la paternità come una modalità sorprendente e dolorosa di “imparare la vita”, di essere padri proprio nella capacità di riscoprirsi figli: di lasciare continuamente aperta in sé la possibilità dell’evento.



Tutto quello che c’è di più bello, nel romanzo, è dato nella dimensione di una sorpresa, di un imprevisto. E quello che forse più colpisce è proprio una caratteristica: l’instabilità. Marcello Magni è sempre vacillante e pellegrino, sempre percosso da un’inquietudine inspiegabile persino a se stesso – ma sempre, nel rapporto col figlio, è una instabilità che ha in sé la possibilità di un cammino: anzi, che addirittura lo preserva, lo rende continua novità, lo riempie di speranza: «Man mano che s’inoltrava, però, cresceva in lui una certezza: nulla si distrugge o si cancella; vive dentro di te quello di cui hai davvero bisogno, anche se magari sanguina come una piaga; da qualche parte, recupererai tutto quello che ti sembra mancare, e quello che non tocchi e che non ti vedi accanto».