Tutti o quasi abbiamo sentito nominare il bosone di Higgs, ipotetica particella elementare conosciuta anche come la particella di Dio, nome intrigante scelto dal premio Nobel Leon Lederman per titolare un suo libro di successo. Al momento della scoperta, grande eccitazione e, fatto rarissimo per un evento scientifico, titoli di apertura sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo: pare infatti che tale fuggevole particella sia stata finalmente osservata nel più costoso e complicato esperimento scientifico mai ideato e realizzato dall’uomo (dopo quello della torre di Babele che invece, come tutti sanno, fallì).



Davanti a tutto questo l’uomo della strada può porsi e probabilmente si pone due domande: 1. che diavolo è il bosone di Higgs? 2. A me che cosa importa?  

Una risposta non tecnica e al tempo stesso soddisfacente alla prima domanda non è possibile. Si può invece provare a descrivere la strada delle idee che hanno condotto fino al bosone di Higgs e in questo modo fornirne una descrizione allusiva, per quanto vaga (a proposito: ci sono bosoni e ci sono fermioni. Un bosone – dal nome del fisico indiano S. N. Bose – è un oggetto che dopo aver fatto un giro su stesso si ritrova nel suo stato iniziale. Mentre un fermione – che con il suo nome onora Enrico Fermi – dopo un giro su stesso si ritrova a testa in giù e per recuperare lo stato iniziale deve completare un secondo giro. Questa distinzione ha conseguenze straordinarie: una è che i bosoni possono formare condensati mentre i fermioni no. La materia ordinaria, grazie a Dio, è fatta di fermioni – elettroni e protoni sono fermioni – e questo garantisce la sua stabilità).



Ritorniamo alla nostra storia dunque. Nel quinto secolo avanti Cristo Leucippo insegnava a Democrito a pensare il mondo in termini di particelle elementari (gli enti) e di vuoto (il nulla). Ciò che distingueva l’allievo dal maestro era l’idea che essi avevano sul modo in cui le particelle interagiscono fra loro. Per Leucippo era il caso ad orchestrare la sinfonia del reale, per Democrito la necessità.

Pur possedendo consistenza materiale, le particelle elementari erano impercettibili ai sensi ma comunque intelligibili attraverso un procedimento puramente razionale. Come Peter Higgs duemilacinquecento anni dopo, Leucippo e Democrito erano dunque fisici teorici ante litteram. Il metodo bello e potente della fisica teorica infatti insegna, a partire da osservazioni a volte semplicissime ed evidenti, a capire cose di cui non soltanto non si può (per il momento, oppure mai) fare esperienza diretta, ma che non si possono neanche immaginare con la semplice fantasia.



La distruzione della biblioteca di Alessandria nel 48 a.C. pose simbolicamente fine alla scienza antica. Le conoscenze scientifiche accumulate dagli ellenisti andarono perdute (en passant: questo fatto non sufficientemente compreso dovrebbe mettere in guardia chi ha responsabilità di governo. La conoscenza è un bene fragile e deperibile. Per distruggerla ci vuole un attimo. Ricostruirla è lungo e faticoso, forse impossibile) e ci vollero sedici secoli per cominciare a recuperarle e di nuovo domandarsi: le particelle cosa sono? E il vuoto che cos’è? E come interagiscono le particelle fra loro?

Una domanda simile, che può farci fare qualche passo avanti, è: che cos’è la luce? Isaac Newton, nel 1675, nel vigoroso inizio della scienza moderna la immaginava fatta di corpuscoli leggerissimi mentre, tre anni dopo, Christiaan Huygens la descriveva come un’onda del tutto simile alle onde del mare, onda che si propaga in una sostanza onnipresente e impalpabile: l’etere.

La visione di Huygens prese presto il sopravvento e tenne banco fino al 1905. In quell’anno mirabile Einstein armato di un criterio estetico spazzò via l’etere e mostrò che l’onda luminosa era in realtà un campo (questo termine è entrato nell’uso comune con l’avvento della telefonia cellulare: c’è campo qui?) elettromagnetico che si autosostiene, propagandosi nel vuoto senza bisogno di un mezzo come il mare per le sue onde o l’aria per la musica. Era l’avvento della teoria della relatività.

Vendicando Newton, Einstein mostrò anche che la luce si comportava per certi versi proprio come una particella, un “quanto” di luce chiamato da quel momento in poi fotone. Per questa seconda ricerca sull’effetto fotoelettrico Einstein ricevette il premio Nobel nel 1921.

Nel 1929 il Nobel fu assegnato invece a Louis de Broglie, un nobile francese di lontane origini piemontesi, che dopo aver conseguito a soli diciotto anni una laurea in diritto e storia abbandonò la carriera giuridica per seguire la sua vocazione scientifica. Nella sua tesi di dottorato, che gli valse il premio, de Broglie sosteneva che la dualità onda-corpuscolo non era caratteristica della sola radiazione elettromagnetica ma valeva anche per la materia. Era possibile assegnare una lunghezza d’onda all’elettrone fino a quel momento concepito esclusivamente come un corpuscolo.

Materia e radiazione sono dunque descritte da campi che pervadono tutto lo spazio e il tempo; le particelle sono concepite come le eccitazioni quantistiche (i cosiddetti quanti) che tali campi fabbricano a partire dal vuoto (che poi tanto vuoto non è, con tanti ringraziamenti da parte di Aristotele che del vuoto aveva orrore).

Eccoci dunque ritornati infine alla domanda fondamentale di Leucippo e Democrito: come interagiscono i campi (e cioè le particelle) tra loro? Si possono immaginare innumerevoli possibilità; la natura ne sceglie soltanto una. Come è possibile averne un’idea? Applicando ancora una volta un criterio estetico quasi infallibile. Il fisico teorico ha un pregiudizio metafisico incrollabile, che probabilmente riflette una certa fattezza del cuore umano: la natura sceglie sempre la via della semplicità e della simmetria, secondo una strada però a volte impervia e sottile.

Simmetria è una parola greca che sta ad indicare un’armoniosa proporzione tra le parti. Il più grande contributo di Newton alla scienza fu quello di avere chiaramente separato le leggi della natura, che sono oggetto di indagine scientifica, dalle condizioni iniziali, che invece non lo sono, mentre il più grande contributo di Einstein fu proprio quello di avere messo in risalto il ruolo delle simmetrie per identificare le leggi della natura, al punto di farne il mezzo e il criterio supremo di tale indagine.

E dunque i campi interagiscono tra loro nel modo dettato da una certa simmetria, la simmetria digauge, che sovrintende e in un certo modo fissa la forma delle interazioni tra le particelle. Manca però un tassello fondamentale. Cosa dà alle particelle la loro massa? La simmetria di gauge è infatti in un certo modo incompatibile con particelle che abbiano fin dal principio una massa diversa da zero. Bisogna allora che la questa simmetria sia rotta spontaneamente: con queste parole si vuole indicare una simmetria che sia ancora presente in astratto ma che non lo sia più nella sua realizzazione concreta. Per farsene un idea si può immaginare una collina perfettamente simmetrica. Ponendo una palla in cima alla collina, la simmetria viene rotta spontaneamente quando la palla rotola giù finendo da un lato o dall’altro. Questo è proprio quello che fa il campo di Higgs: rompe spontaneamente la simmetria di gauge rotolando giù dalla collina (acquattandosi nel minimo del potenziale del campo). Cosi facendo dona una massa altre particelle del modello standard (più precisamente ad alcune di esse).  

Il “quanto” del campo di Higgs è il famoso bosone la cui esistenza fu prevista da Peter Higgs nel 1964 e che è stato osservato in due esperimenti condotti al CERN di Ginevra negli ultimi due anni, con la guida e la partecipazione di un grande numero di fisici, uomini e donne, italiani. Tutto questo ha richiesto la progettazione e la costruzione del LHC (Large Hadron Collider), il più ambizioso e complesso strumento scientifico mai immaginato dall’uomo.

La seconda domanda che ci siamo posti all’inizio è anche interessante. Il contribuente può infatti chiedersi se valga la pena finanziare ricerche così costose per arrivare a risultati così apparentemente remoti dalla vita di tutti i giorni. Infatti, con tempismo degno di miglior causa, il governo nella sua spending review (ma la lingua italiana è stata abolita per decreto? Bisogna sempre diffidare di questi camuffamenti linguistici…) si appresta a tagliare i viveri all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, che nella scoperta del bosone di Higgs ha avuto un ruolo decisivo e trainante. Si recuperano somme in fin dei conti modeste ma che inibiscono la capacità di operare di uno dei migliori istituti di ricerca italiani, mentre si lasciano sopravvivere e prosperare altre iniziative perlomeno dubbie, per tacere di tutto il resto.

Molti a questo punto reagiscono sciorinando la lista dei successi tecnologici che l’aver finanziato ricerche di fisica fondamentale ha prodotto, prima tra tutte il Web, inventato al CERN di Ginevra per gli scopi della fisica. Io sono personalmente contrario a questo genere di argomentazioni perché situano la risposta sullo stesso piano bassamente utilitarista e mercantile della domanda. La risposta è che, finché l’uomo sarà uomo, la sete di conoscere non sarà soddisfatta e anzi sarà sempre soltanto approfondita e scavata da ogni nuovo pezzo di verità che, come una dura pepita nel fango, sarà stata portata alla luce. Una società che rinuncia a questo diritto e a questo dovere ha già cominciato a decomporsi.