In questi ultimi giorni mi è capitato di leggere un piccolo libro il cui titolo, “Il dono e lo scambio”, mi sembrava utile per l’approfondimento dei miei attuali studi: Gli autori sono Dario Antiseri (un intellettuale liberale e cattolico) e Giacomo Panizza (un sacerdote fondatore della Comunità Progetto Sud di Lamezia Terme), il volume è edito da Rubbettino.
Perché ne scrivo? In estrema sintesi: ne scrivo perché la cosa che mi ha maggiormente colpito consiste nel fatto che nel dibattito che avviene fra i due autori si evidenzia a tutto tondo l’estrema teoricità di Antiseri e la semplice, quotidiana e realistica posizione di un sacerdote che con la realtà economica si è “sporcato” le mani. Io, lo confermo subito, sono tutto dalla parte del Panizza e poco o niente dalla parte di Antiseri.
La prima cosa per cui non sono dalla parte di Antiseri è che l’autore, più che sostenere le sue tesi con proprie parole e propria logica non fa che citare altri. I suoi interventi consistono in un insieme di citazioni che dovrebbero confermare due cose: che l’economia liberale è la sola che postula livelli di benessere e di moralità, e che la dottrina sociale della Chiesa si riporta interamente, o quasi, a questa economia.
Due cose che, con una buona conoscenza della dottrina sociale, il Panizza cerca di contrastare con pochissime citazioni, ma supportando il tutto con il ragionamento che scaturisce dal buon senso di chi ne fa sostanziale esperienza quotidiana.
La seconda cosa per cui non posso essere in accordo con Antiseri consiste nella circostanza che egli nel suo periodare pone come cosa scontata il contenuto di molte parole e di molte espressioni, senza chiarificarne mai il contenuto che intende dare. Alcuni esempi. a) C’è identità tra libero mercato e mercato capitalistico? Secondo Antiseri parrebbe di sì, ma secondo la dottrina sociale e in particolare secondo Giovanni Paolo II non è proprio così.
B) Qual è il contenuto economico contabile che Antiseri riferisce al termine profitto? All’imprenditore deve essere riconosciuta solo la congrua remunerazione del capitale proprio investito nell’impresa (costo corrente del capitale più remunerazione per il rischio imprenditoriale) o si può appropriare di qualsiasi livello di surplus prodotto? Sono due concezioni di remunerazione imprenditoriale completamente diverse tra loro. La prima è maggiormente legata al principio del bene comune e dell’impresa come “banco comune” del lavoro, la seconda potrebbe essere il varco verso la speculazione e verso un’economia miope che si appropria di ciò che è comunemente prodotto per meri interessi che rispondono solo al principio del tornaconto.
C) Il diritto di proprietà è sempre moralmente da proteggere? La dottrina della Chiesa ha sempre limitato il diritto di proprietà, e specialmente quello dei mezzi di produzione, nei termini del principio del bene comune. Da san Tommaso sino a Benedetto XVI questo è continuamente e sistematicamente sostenuto ed indicato.
D) In quali termini concreti l’imprenditore è naturalmente un costruttore di solidarietà? Anche quando licenzia per abbassare i costi e per elevare il proprio surplus, o quando trasferisce le proprie attività all’estero per meri fini fiscali, o quando si appropria e non rinveste il surplus eccedente la sua congrua remunerazione nell’impresa? Abbiamo alte o basse percentuali di solidarietà imprenditoriale nei mercati capitalistici? Nelle grandi imprese, dove l’imprenditore è spersonalizzato nella frantumazione del capitale di proprietà o nei vari fondi di investimento o pensionistici, vi è ancora l’imprenditore e la solidarietà imprenditoriale professata è ancora presente? O, invece, l’assenza della figura imprenditoriale ha trasferito al top management i classici compiti imprenditoriali e le cospicue remunerazioni che costoro si attribuiscono anche in periodi di crisi e di licenziamenti, hanno pur sempre un contenuto di solidarietà e sono sempre rispettose del bene comune?
A tutti questi quesiti, ma molti altri se ne potrebbero porre, il ragionamento dell’Antiseri scivola acriticamente verso soluzioni precostituite anche attraverso citazioni che una volta estrapolate dall’intero contesto dovrebbero meglio essere attribuite, come, ad esempio, quelle fatte sul pensiero di Pio XI che sul capitalismo ha avuto parole di inequivocabile condanna e quelle attribuite a Giovanni XXIII e a Giovanni Paolo II.
Tutto questo ragionamento critico è assente dall’analisi dell’Antiseri. Egli, infatti, “svolazza” con apparente soddisfazione fra innumerevoli citazioni sia in testo che in nota, cita eminentissimi Autori del liberalismo classico, ma non ha alcuno sguardo sulla concretezza dell’oggi e sulle negatività che il capitalismo, distruttore del libero mercato e favorevole alla speculazione tornacontista, ha recato a questi poveri nostri giorni. Egli non si sofferma mai e non avanza alcuna considerazione sulla crisi e sulla recessione che stiamo subendo e a cui in maniera degenerata proprio il capitalismo senza regole ci ha condotto.
Eppure il libro è datato marzo 2012.