L’inglese Edward Carr, nelle sue celebri lezioni sulla storia, metteva in guardia i giovani aspiranti alla disciplina di investigatori del passato dal comportarsi come il pescivendolo al mercato che di tanto in tanto spruzza acqua sui pesci per mantenerne la freschezza il più a lungo possibile, o per lo meno fin quando un cliente non abbia scelto quello da portarsi a casa e il pesce non gli sia stato incartato. Fuor di metafora, l’insieme di eventi pubblici e privati che formano la storia, tolti dal flusso vitale in cui sono immersi, analizzati in vitrosia pur con buone lenti e sguardo acuto non riacquistano le originarie proprietà; restano morti, come i pesci sul ripiano di marmo, e se non puzzano ancora puzzeranno. Per il russo Nikolaj Berdjaev, dall’olfatto ancora più fino, solo nell’acqua del significato i fatti della storia si mantengono guizzanti, i nessi organici, gli eventi palpitanti e intelleggibili. 



Gli ideatori e autori della mostra sui duecento anni delle indipendenze dei Paesi dell’America Latina sembrano aver tenuto presente la raccomadazione del professore di Cambridge e del filosofo russo. Nelle tre sezioni della mostra, allestita a Rimini per la prima volta, gli eventi, i protagonisti, il pensiero degli uomini delle indipendenze ispanoamericane danno forma a un mosaico affascinante. Fin dall’alba di quel 12 ottobre del 1492 quando tre imbarcazioni gettarono l’ancora davanti alle coste di un’isola dell’arcipelago delle Bahamas cambiando, con la storia dei popoli raggiunti, anche quella dei popoli di provenienza. Un incontro drammatico, la cui figura emblematica, scelta dagli organizzatori della mostra, è quella di Hernán Cortés. E dietro di lui, da lui sollecitata, l’ondata missionaria di francescani, domenicani, gesuiti e mercedari.



Tra di loro – per nominarne solo alcuni che compaiono nella mostra – c’era frate Toribio de Benavente, Motolinía “il povero” lo chiamavano gli indigeni, autore della Storia degli indios di Nuova Spagna, a suo modo, della storiografia antropologica moderna. Qualche anno più tardi lo affiancheranno frate Juan de Zumarraga, primo vescovo di Messico, e frate Bernardino de Sahagun, vero storico ante litteram, autore di una monumentale opera di riscatto della la lingua, le abitudini e la religione degli antichi messicani. Un meticciato straordinario quello che si compone nei primi decenni del XVI secolo, unico nella storia dell’espansione europea oltreoceano, che ha dato al continente latinoamericano una “singolare identità” e una “indole originale”.



Non poteva non trovar spazio, nella mostra, la pagina drammatica dell’espulsione dei gesuiti, il 2 aprile 1767, decretata da Carlos III con la Pragmática Sanción decretava l’esilio della Compagnia di Gesù da tutto l’Impero Spagnolo. I gesuiti non ritorneranno mai più nelle loro Reducciones. L’agonia e la distruzione delle missioni è stata la vittoria di una concezione illuminista che difendeva a oltranza la proprietà individuale, imponendo all’indigeno una libertà di tipo sconosciuto, incentrata sul commercio. Nella metà del secolo XVIII l’Impero spagnolo iniziava il suo regresso e con esso la simmetrica avanzata dell’impero britannico in America Latina, soprattutto attraverso i portoghesi del Brasile.

Sconfitta la resistenza armata gesuitico-guaraní, i gesuiti vennero espulsi dai territori del Nuovo Mondo e il 21 luglio 1773 Clemente XIV firmò il decreto di soppressione della Compagnia di Gesù Dominus ac Redemptor. La profonda crisi della Chiesa cattolica in Europa si ripercuoteva così con forza nell’America spagnola. Nobiltà monarchica, intellettuali e logge massoniche la relegavano quale simbolo di un passato superstizioso definitivamente superato dalle “luci” della ragione e del progresso. La dissoluzione della compagnia di Gesù segnò l’apice della debolezza della Chiesa. Che precederà di appena trent’anni la prigionía del Pontefice e le convulsioni della Rivoluzione Francese e dell’Impero napoleonico.

Suggestiva la seconda sezione della mostra, quella centrale, con l’invasione della Spagna da parte dell’esercito francese, ordinata da Napoleone nel 1808, che segna l’inizio del processo che conduce al distacco degli spagnoli in America, la formazione di poteri agglutinanti in loco e lo smembramento dell’Impero Spagnolo in una ventina repubbliche. La crisi della monarchia borbonica e i prodromi indipendentisti nei territori dell’America Latina, indipendenze, i protagonisti – Bolivar, San Martín, al sud, Idalgo, Morelos, Ituribe al nord, nell’attuale Messico – sono presentati nella mostra ben connessi con le sorti degli ideali che intendevano affermare: la lotta tra utopie e significato, i due vessilli dell’indipendenza ispanoamericana.

Aveva chiaro il Manzoni che quel che fa la storia, quello che la rende misteriosamente comprensibile, è il significato che la percorre, la lotta dell’umano per realizzarsi in umanità. E come il Manzoni, gli organizzatori della mostra hanno scelto, nella bicentenaria storia dei loro Paesi, “degli avvenimenti interessanti e drammatici che siano legati fortemente l’uno con l’altro, ma debolmente con quelli che li precedono e li seguono, in modo che lo spirito, così vivamente colpito dal rapporto esistente tra di essi, si compiaccia di formarne un unico spettacolo, e si applichi avidamente a cogliere tutta l’estensione e tutta la profondità del rapporto che li unisce, e a chiarire il più nettamente possibile le leggi di causa e di effetto che li governano”.

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