“La storia della nostra civiltà non può consistere in un’unica linea di sviluppo, che porta fino a un culmine moderno a cui possiamo guardare con ammirazione, ma che poi si rivela inevitabilmente limitato nei suoi effetti e temporaneo come esito. Ciò con cui dobbiamo ora confrontarci presenta una molto più grande varietà e ben più pronunciate sfumature. Contiene una pluralità di modi di pensare e di tradizioni che incessantemente si succedono nell’attirare i nostri interessi e alla fine la nostra adesione, e che possono produrre i loro frutti imprevedibili in qualunque circostanza di tempo e luogo. Io ritengo che il nostro compito di storici delle idee sia quello di custodire il patrimonio che abbiamo ereditato nella sua interezza e in modo imparziale, a prescindere dalla nostra opinione personale sulla validità o l’importanza da attribuire a ogni singolo elemento che entri a comporlo”.
Non sono parole mie, ma la geniale sottolineatura incastonata in un saggio del grande Paul Oskar Kristeller, uno dei più autorevoli studiosi del pensiero filosofico e della cultura umanistica fioriti nel contesto della civiltà europea tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna (Between the Italian Renaissance and the French Enlightenment: Gabriel Naudé as an editor, “Renaissance quarterly”, 1979, pp. 60-61). Siamo costretti a citarlo riferendoci a una rivista nordamericana perché solo una piccola parte dei pregevoli contributi che ci ha lasciato, nella sua indagine appassionata sulla tradizione intellettuale dell’Occidente degli ultimi secoli, ha potuto finora essere resa disponibile in lingua italiana. Probabilmente non sono solo ragioni economiche o incidenti tecnici di percorso ad aver ostacolato il travaso nel circuito editoriale e accademico del nostro Paese: ha agito qui una sorta di resistenza ad accettare un punto di vista diverso, che minacciava di mettere in crisi gli schemi di una ricostruzione a senso unico del passaggio al pensiero moderno.
L’effetto di disorientamento, con l’invito perentorio ad allargare gli orizzonti dello sguardo che possiamo gettare sul cammino attraversato per approdare agli esiti della nostra contemporaneità, emergerebbe in modo ancora più clamoroso riprendendo in mano molte altre opere dello studioso costretto a emigrare nel Nord America dalla persecuzione antiebraica del regime nazista. Basterebbe, a tale scopo, fare seriamente i conti con le brillanti dieci pagine di The myth of Renaissance atheism and the French tradition of free thought («Journal of the history of philosophy», 1968, pp. 233-243), che riprende il testo di conferenze tenute da Kristeller in diverse sedi universitarie, americane ed europee, negli anni Cinquanta e Sessanta, in effetti già apparso, in versione spagnola, nel 1953, tradotto poi in francese sulla prestigiosa «Bibliothèque d’Humanisme et Rénaissance», nel 1975, ma mai passato in traduzione italiana. Non mi pare un segnale positivo di avanguardia.
Già questi semplici dati aiutano a capire come mai, al di là degli omaggi formali tributati ai maestri riconosciuti di una disciplina, Kristeller continui a rimanere una voce sostanzialmente fuori dal coro. Allo stesso modo lo sono quanti si sono mossi in direzioni analoghe: come fece, per vie indipendenti, lo storico francese Lucien Febvre nel suo famoso saggio su Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais. Il libro vide la luce per la prima volta nel 1942 e non a caso Kristeller lo segnalò, in esordio di The myth of Renaissance atheism, come uno dei pochi lavori di autori che sembravano “concordare con il [suo] modo di vedere”, contrapponendolo, per esempio, alla Ricerca dei libertini dell’influente storico italiano Giorgio Spini.
Se c’è una cosa chiara, è proprio la differenza che corre tra l’approccio di Kristeller e degli studiosi dell’Umanesimo religioso rispetto alla linea vincente di Garin e dei suoi allievi o seguaci (ma già prima questa era stata la linea di Burckhardt, e per l’Italia unita di De Sanctis). Nella prospettiva degli apologeti del Rinascimento e della modernità laica viene messa al centro l’idea della frattura. L’anima profonda della modernità sarebbero la conquista dell’autonomia dell’individuo e l’espansione delle dimensioni secolari della realtà, attraverso la contestazione e la progressiva messa ai margini dell’elemento cristiano che dominava la tradizione intellettuale medievale. Ma il punto debole di questa impostazione dualistica è la sua sbrigativa unilateralità: per lei conta una sola linea evolutiva, quella che porta all’esito ultimo del divorzio tra fede e ragione, con l’emancipazione della cultura moderna dall’abbraccio del senso cristiano del mistero, che prima avvolgeva da ogni lato il soggetto umano.
Questa lettura laica e progressista però dimentica che la ragione non è condannata a essere solo la succursale subalterna della fede, così come l’universo della società non è pensabile come la semplice dilatazione terrena della realtà della Chiesa. La ragione e il mondo dell’uomo, al contrario, possono trarre vantaggio da un rapporto di interscambio dialettico con il nucleo della fede. La filosofia e la scienza non sono riducibili alla teologia rivelata. La messa in tensione del monismo delle correnti più radicali del Medioevo cristiano ha svolto anche un effetto di “disincantamento” e di sollecitazione benefica: è stata una scossa che ha prodotto lacerazioni, ma ha aiutato anche a sprigionare molte potenzialità rimaste compresse sotto il mantello della cristianità intesa come assetto egemonico di controllo e di potere inglobante.
Inoltre chi sottolinea solo la distruzione del retaggio cristiano medievale dimentica le forze imponenti di continuità all’interno di una tradizione così tenace e condivisa da proiettarsi ostinatamente fin nel cuore della modernità più avanzata. L’ossatura cristiana della cultura collettiva ha continuato a far sentire il suo influsso molto a lungo nel tempo. Non ha funzionato come un blocco che intralciava l’ascesa verso il nuovo, ma ha contribuito essa stessa a generarlo, costringendo le spinte di rottura più spericolate a ridefinire i loro obiettivi, a reinserirsi in un contesto che solo al termine di un faticoso processo ha potuto essere espugnato fino in fondo.
Bisogna sollevarsi fino a questo livello di una reinterpretazione generale della nascita della modernità se si vuole avanzare in modo produttivo nel confronto di idee che abbiamo ospitato su queste pagine, prendendo spunto dalla controversa attualità delle tesi di Dawson. La linea di Kristeller che stiamo cercando di indicare come strada alternativa non è, comunque, l’opinione di un pensatore isolato. Rispecchia un movimento profondo interno alla più alta memoria storica del Novecento, desiderosa di non rimanere intrappolata nelle reti delle ideologie antireligiose postilluministe e di arrivare a recuperare una visione dell’uomo (anche dell’uomo moderno) amica della potenza della ragione e del suo insopprimibile anelito di infinito, in cui si esprime la voce primordiale del cuore.
Segnalo solo tre indizi telegrafici, come spunti ulteriori di verifica ripresi da alcuni fra gli altri sommi maestri della cultura umanistica dell’ultimo secolo: penso alla grande visione sintetica di Leo Spitzer sulla vitalità proteiforme dell’immagine armonistica dell’universo di matrice classica, strutturato come accordo del molteplice tenuto insieme dalle sue forze sotterranee di convergenza; o ancora ricordo il profilo di Otto Brunner sulla continuità del sistema sociale e culturale dell’Antico Regime, ancorato alle sue lontane premesse medievali; da ultimo si può rimandare, in modo ancora più diretto, ai quadri molto nitidi di periodizzazione storica tracciati dall’esponente di punta della storia della Chiesa delle ultime generazioni, cioè Hubert Jedin.
Anche solo riprendendo in mano quanto sobriamente esposto nel suo (sempre attuale) libretto del 1946 su Riforma cattolica e Controriforma, si misura immediatamente la distanza che ormai ci separa dal tradizionalismo, fondamentalmente nostalgico e più rivolto al passato che alle sfide del futuro, difeso dalla cultura cattolica dell’ultimo Ottocento e del primo scorcio del secolo della grande crisi finale della coscienza europea. Più che ricomporre i brandelli sfilacciati di un ordine antico, ora si tratta, invece, di reinventarlo, ricominciando dalle radici: cioè dalla coscienza dell’io.