Ancor prima di cominciare, mi rendo conto che queste brevi note, nate per tentare qualche consiglio di lettura, in realtà prendono la forma di un appello: come Leopardi cercava la donna che non si trova, io cerco l’opera che non si trova. Se qualcuno ha sapienza, soccorra la mia ignoranza e mi dica dove trovarla.
Non cerco un’opera qualsiasi tra le migliaia di libri che ci piovono addosso pieni d’artificio, fotocopiati in serie, ricombinando la stessa solfa in schemi e incastri per assumere l’apparenza del nuovo, senza che il prodotto, perché di prodotto si tratta, cambi.
Io cerco l’opera che sorge dalla meraviglia, dall’incanto per la natura gratuita della parola che, prima d’essere pronunciata, è trovata, ricevuta. Cerco l’opera in cui riviva lo stupore di Zivago quando rilegge i versi che ha scritto e stenta a riconoscerli come propri. Cerco il poema che nasce vicino al fiume in cui Dante ricevette l’esordio di Donne ch’avete intelletto d’amore, i semi neri deposti sul foglio dalle tristi penne sbigottite di Cavalcanti.
Cerco le parole dei soldati di Noventa:
…Ancùo lesendo, come i fusse vivi,
in Giacomo, in Francesco, in Dante e in altri
cari poeti, o nostrani o foresti,
ma xé vignùo un pensier:
Che noialtri se sia come i coscriti
in una guera granda, e che i poeti
sia come quei soldai che ne diseva,
e parlàsseli pur del so paese,
dei campi e dei lavori lassài là,
una storia d’amor
Parole non diverse da quelle che il ligure Franco Loi sentiva pronunciare sui tram dai milanesi e che hanno dato vita alla sua straordinaria poesia.
Cerco la parola vaga, quella che risuona nel mondo e non si sa da dove venga, come sfugge al bambino il primo muoversi del tamburo della betoniera giocattolo che egli trascina dietro di sé nel formidabile racconto di D. F. Wallace (All that).
Cerco le parole di cui parla Ungaretti commentando il primo canto dell’Inferno: La parola, che avrà sommamente per Dante il valore di segno ascendente dell’intelletto e di duro strumento della passione morale, gli giunge, per iniziarlo a umanità e a poesia, anteriore all’uomo stesso, sacra, radicata nel mistero della natura, sostanza stessa della coscienza, anche se essa non sarà profferita dall’uomo e non sarà da esso udibile se non quale umano strumento della storia.
Cerco la parola inaspettata, improvvisa come la giornata di sole di Camus, la parola incomprensibilmente misericordiosa del vescovo di Digne al galeotto Jean Valjean, nei Miserabili di V. Hugo o quella che attende Oliver Twist nel romanzo di Dickens, perché resta vero che ci troverà, ci ha già trovato la bontà, come scrive C. McCarthy.
Cerco la parola sbocciata come un fiore primaverile sull’albero nutrito dalla radice di Cristo quando disse all’adultera: “Vai, neanche io ti condanno”, o rivolse la triplice domanda a Pietro, “mi ami tu?”.
Cerco l’opera che faccia proprie ancora un volta le parole millenarie che riecheggiano nella predica di Natale del Thomas Beckett di Eliot o quelle di padre Mapple nel sermone che apre la tragedia di Moby Dick: “Quale abisso dell’anima riesce a sondare il profondo scandaglio di Giona!”.
Cerco l’opera che abbia memoria, la memoria che diventi voce e faccia risuonare il racconto dell’Ulisse di Dante nel pieno del campo di sterminio, come in Se questo è un uomo di Primo Levi.
Cerco l’opera che non tema di inseguire, fin dove sia possibile, la parola nell’abisso d’amore in cui viene deposta e giace, e nasce, e vive. “L’abisso invoca l’abisso”, cita Clemente Rebora; e commenta: “L’abisso di miseria invoca l’abisso di misericordia”.
“Resta da fare la poesia onesta”, diceva Saba, onesta come la donna gentile (nobile) e onesta “(onestà è manifestazione evidente della nobiltà interiore”, ci ricorda G. Contini) cantata da Dante all’inizio del miracoloso cammino che lo attende in compagnia di Beatrice. E onesto (nobile) è il ringraziamento del gigantesco Princivalle, l’assassino Princivalle, al giudice che lo ha appena condannato a trent’anni di lavori forzati, spiegato dalla mirabile maestria di Riccardo Bacchelli (Il mulino del Po): “Non soltanto dalla competenza giuridica, ma dall’umana esulava ultimamente ciò che aveva dettato a Princivalle il suo ringraziare: superava, nell’atto di ubbidirgli lui, non che altrui scienza, l’esperienza sua: apparteneva al segreto che l’uomo accoglie intiero, nel nascere ignaro, restituisce intiero, morendo, se non in quanto scienza ed esperienza l’hanno concetto via via più grande e più forte segreto nel tramite misero e sublime dei giorni terreni. Infatti chi più vi scorge più lo profonda ma è di tutti in quanto è d’ognuno, originale, intiero, uguale in sé, purché viva, in grandi e pusilli; dei quali uno era Princivalle Scacerni: ma vivente, ma sincero in coscienza. Né si dà di più alto e più profondo al conoscere e all’agire dell’uomo”.
Cerco perciò l’opera in cui la parola sia veritiera, non tema di incontrare gli occhi o il pensiero di chi la sta pronunciando. Diversamente da quel che accade a Walter, il protagonista di Libertà di J. Franzen, che vuol fondare un’associazione contro la riproduzione del più pericoloso tra gli essere viventi, l’uomo (non è fantascienza; consiglio di leggere quel che ha scritto R. Brague sul penultimo numero di Vita e pensiero). Solo che Walter deve nascondere a se stesso che il desiderio più ardente nei confronti della sua più fedele seguace, la sua segretaria, è quello di avere un figlio con lei.
Cerco la parola sincera (paese sincero è il nome che Dante, e Tasso dopo di lui, riferiscono al Paradiso); la parola semplice di Saba:
Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
(La bellezza è difficile, scrive Pound nei Canti pisani)
Cerco i limoni di Montale, il saor del pan di Noventa, la pobbia de cà Colonetta di Delio Tessa, il pioppo di Rebora, San Martino di Carducci, il Friuli di Pasolini, la lauzeta di Ventadorn; insomma quelle cose cantate dai poeti di cui si può dire quel che Franco Loi dice del mondo:
Cume me pias el mund! L’aria, el so fiâ!
j àrbur, l’èrba, el sû, quj câ, i bèj strâd,
la lüna che se sfalsa, l’èrga tra i câ,
me pias el sals del mar, i matt cinâd,
i càlis tra i amís, i abièss nel vent,
e tücc i ròbb de Diu, anca i munâd,
i spall che van de pressia cuj öcc bass,
la dònna che te svisa i sentiment:
l’è lí el mund, e par squasi spettàss
che tí te ‘l vàrdet, te ghe dét atrâ,
che lü ‘l gh’è sempre, ma facil smemuriàss.
tràss föra ind i pernser, vèss durmentâ…
Ma quan’ che riva l’umbra de la sera,
‘me che te ciama el mund! cume slargâ
te vègn adòss quèl ciel ne la sua vera
belessa sena feng nel so pensàss,
e alura del tò pien te càmbiet cera.
Infatti
Non c’è bruscolo di tempo
né di spazio
che non meriti per sé infiniti poemi
che già in sé non li sia.
(A. Zanzotto Il vero tema).
Cerco la parola che abbia il sapore dei fatti, l’ostinazione testarda dei fatti come dice il diavolo nel Maestro e Margherita; la parola buona, sicura e forte, quella di Girolama nel Miguel Manara di O. Milosz che procede come la suora che si avventura sola nel rosso recinto dei suppliziati; il bacio di Violaine al lebbroso Pietro di Craon, la presenza di Sonia ricevuta con devozione e tremore dai forzati descritti nel Delitto e castigo di Dostoevskij o la donna che entra nella camera a gas con un bimbo, già morto, in braccio, e pensa: Finalmente sono madre (V. Grossman, Vita e destino).
Cerco l’opera in cui la parola sappia assumere il timbro della voce umana e diffondersi come canto, struggente canto, a confortare, accompagnare, risvegliare l’umana compagine. Sia esso il canto della lavandaie o la voce notturna, il singulto, il pianto dell’assiuolo di Pascoli, o quello dell’artigiano, di Silvia o della ginestra leopardiana, o ancora quello descritto nella Cava di Pietra di K. Wojtyla:
La pietra ti dà la sua potenza, il lavoro matura l’uomo
che ne riceve ispirazione per un difficile bene.
Dal lavoro ha dunque inizio una crescita di cuore e di mente
che tante persone coinvolge e tanti eventi importanti
ed in mezzo ai martelli matura l’amore.
Nidiate di bambini lo porteranno in un domani cantando:
“Un immenso lavoro si è compiuto nel cuore dei nostri padri”
Cerco la parola che sia speranza, fanciulla che danza e gioca nel secondo movimento della sinfonia dei Misteri di C. Peguy.
La parola che sia comunione come la campana di Lombardia di Rebora, voce mia, voce tua; come lo sguardo della Madonna sistina che risplende nei volti dei condannati di Treblinka, nel racconto di Grossman.
La parola dormiente del vecchio Kutuzov (Guerra e pace), che, prima delle armi e delle strategie, conosce gli uomini.
La parola che non pensa pensieri prefabbricati, come quella di Maigret.
La parola che sa comprendere la stoltezza di Dio, la dislessia di Dio (così la chiama D. F. Wallace), come il padre dell’Imperatore di Portugallia di S. Lagerlof.
La parola che mendica, come nel Re Lear di Shakespeare.
La parola amorosa che Cecilia rivolge a Coniglio mannaro, il più meschino, avido e viscido degli uomini, che l’ha sposata con l’inganno davanti a un falso prete (Il mulino del Po).
La parola grata che l’alcolizzato professore di disegno insegna a Kostja nella Sete di A. Gelasimov.
Infine cerco la parola intelligente, la parola umile, quella che Manzoni lascia dire a Lucia in conclusione del suo gran romanzo perché nasce dal popolo di cui entrambi, Manzoni e Lucia, sono figli;
La parola che sta al principio, quella che si fa carne, quella che mette insieme gli uomini e li conduce verso il loro destino.
Cerco la parola dell’esperienza.
Quest’opera cerco, se qualcuno l’ha trovata.
Nel frattempo c’è ancora tanto, nel poco che ho tirato fuori dalla saccoccia della mia incompleta memoria, da leggere o rileggere.