Quando c’è una bella notte stellata, il signor Palomar dice: – Devo andare a guardare le stelle –. Dice proprio: – Devo, – perché odia gli sprechi e pensa che non sia giusto sprecare tutta quella quantità di stelle che gli viene messa a disposizione. (La contemplazione delle stelle)

Guardare le stelle – scrive Italo Calvino – significa rispondere a una provocazione imperdibile che ci viene offerta: non è giusto lasciarsi scappare tanta bellezza. In queste sere stanno lì le stelle, e non sono appena uno sfondo, «moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume» a chi mangia, si abbraccia, canta o prova a «noverar le stelle ad una ad una» (Leopardi) con qualche applicazione. Per guardarle c’è bisogno che vengano spente le luci artificiali, chiacchiere comprese. Sentendoci addosso improvvisamente, in quel silenzio denso di meraviglia, lo spavento di Lucio Dalla: «perché davanti a questo cielo nero di stelle – e ce ne sono stanotte di stelle, forse miliardi – cuore non parli?». (Apriti cuore)
La loro attrattiva splende davanti a me, ma occorre che io sia «puro e disposto a salire le stelle», secondo il verso finale del Purgatorio. Come lo fu Pavese, quando una notte, a 16 anni, la sua mente si allagò di stupore:



Infinito stellato, tu, la notte alla mente
che ti sta ansiosa dici che sei il mistero;
il giorno efimero ti nasconde allo sguardo,
il giorno che è nulla nell’immenso tuo,
il giorno che è tutta la vita dell’uomo.
Infinito oscuro, stellato,
solo al tuo silenzio comprende l’uomo
che tra un’eternità tu gli sarai ancora un mistero,
sempre un mistero.



Non soltanto la notte stellata ci viene data, ma ci parla. E lo fa accendendo la luce sul «mistero»: una parola accanto a cui stride l’avverbio “ancora”, a meno che non sia subito corretto dall’avverbio “sempre”: perché non ci sarà mai, in nessun tempo futuro, tramite nessuna approssimazione scientifica, spegnimento del mistero, miope riduzione di quel cielo a somma di ammassi gassosi. Anzi, «in una notte piena di stelle» – spiega il Nobel per la fisica Carlo Rubbia – si fa strada «un “qualcosa” che ci sfugge»:

Il sentimento che prova un profano assistendo a un fenomeno naturale grandioso come un cielo pieno di stelle, un tramonto, l’immensità del mare, per uno scienziato è ancora più grande, in quanto respira qualcosa di veramente perfetto nella sua struttura. Questa perfezione esiste, è nella profondità delle cose.



Infatti le stelle, oltre a far brillare il loro mistero, evocano la domanda sulla realtà e sull’uomo. Cos’è «tutta la vita dell’uomo» rispetto all’«immenso» delle stelle? Cos’è questo puntino sperduto dentro «un atomo opaco di male» inondato da «un pianto di stelle» (è la celebre X agosto di Pascoli)? Un essere tanto piccolo che, leopardianamente, «si confonde quasi col nulla», dal momento che «si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza». Quando ci è successo l’ultima volta di guardare le stelle con questa intensità, perdendoci «nel pensiero della immensità delle cose» (Zibaldone, 12 agosto 1823)? E – soprattutto – quando ci è capitato di sentir vibrare il paradosso della piccolezza umana, ossia di commuoverci per l’immensità del nostro desiderio, più grande di tutte le galassie messe insieme?

Considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo. (Leopardi, Pensieri, 68)

Perfino le stelle ci sembrano «poco»: anzi, mai come lì sotto patiamo «mancamento e voto». La più vertiginosa caduta delle stelle avviene sopra di noi, con l’irrefrenabile precipitare delle domande dal senso di quel «profondo infinito seren» al senso del nostro essere al mondo. Sono i memorabili versi del Canto notturno:

E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?

È sotto le stelle che viene facile scoprire di essere rapporto con l’infinitamente grande. Lo ha intuito Foscolo:

Scintillavano tutte le stelle, e mentr’io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, ed il mio cuore s’innalzava come se aspirasse ad una regione più sublime assai della terra. (Ultime lettere di Jacopo Ortis, 13 maggio 1798)

Che le stelle ci attraggano, infatti, implica che ci tirino così in alto da farci venir voglia di sbirciare più in là: è la nostalgia per «un non so che di celeste» che esse segnalano ma non sono. Il legame avvertito dal senso comune fra stelle e desideri si radica fin dentro le parole, visto che «desiderio» è sostantivo generato da «stella»: «sidus, sideris», che, preceduto dal «de» privativo, coglie un’indefinibile “mancanza delle stelle”, di qualcosa di smisurato come le stelle.
Siamo seri, però: le stelle in effetti sono composte di materia, e c’è poco da perdersi dietro alle poesie. Finiranno anche loro. L’uomo può desiderare quanto vuole, ma – Leopardi non fa sconti – le «tacenti stelle» se ne infischiano: «né scolorò le stelle umana cura». Eppure, se «anche il cielo stellato finirà», allora come mai – si chiede sgomento Ungaretti – ci zampilla nel cuore, perfino sotto un cielo di guerra, l’urgenza di qualcosa che non finisca mai? «Perché bramo Dio?» (Dannazione). Il punto è che sotto le stelle c’è tutto lo spazio che serve all’emergere di una tristezza finalmente senza vergogna. Lì diventa chiaro – osserva Luigi Giussani – che quella dell’uomo

non è una tristezza chiusa, davanti alla quale sta la notte, è una tristezza davanti alla quale sta la notte col cielo stellato; ed è il cielo stellato che in tutti i secoli della storia ha guidato il desiderio dell’uomo per delle avventure senza fine, per una conoscenza senza ostacoli.

L’esistenza non è l’inferno dell’«aere sanza stelle». Noi non sappiamo guarire al richiamo di quella chiarità lontana, continuiamo a sfogliare affascinati «sotto le stelle il libro del mistero», per dirla con Pascoli. Perché alla sterminata tristezza, alla mancanza, all’ansia che ci prende – se ne accorse Pirandello – «per forza ha da esserci» una altrettanto sterminata risposta:

Spesso la grandezza mia consiste nel sentirmi infinitamente piccolo: ma piccola anche per me la terra, e oltre i monti, oltre i mari cerco per me qualche cosa che per forza ha da esserci, altrimenti non mi spiegherei quest’ansia arcana che mi tiene, e che mi fa sospirar le stelle… (Dialoghi tra il Gran Me e il Piccolo Me)

Deve esserci. Ma cos’è? Come fari accesi a svelare e insieme a velare un buio che è «oltre», le stelle non bloccano la percezione del mistero a un sospiro estetico, ma spingono a volerlo conoscere. Una delle notti raccontate da Lucio Dalla («nel cielo tante stelle da star male: una cade e non la vedo più. Bella come te, o notte, non ce n’è: Raffaello e Michelangelo un cielo così bello non l’hanno visto mai») ha sentito esplodere la domanda delle domande: «Vorrei sapere chi è che muove il mondo e dov’è e cosa resta di me».
Ci sarà mai una risposta attendibile a interrogativi tanto siderali? Agostino d’Ippona non si fece problema a rivolgerli direttamente alle stelle: «Interrogavi caelum, solem, lunam, stellas: neque nos sumus Deus»: noi non siamo Dio, risposero le stelle. Che è come dire: “è  vero che siamo belle, ma c’è qualcosa che è ancora più bello di noi”. Ma come fanno a rispondere? Proprio attraverso la loro bellezza («species eorum»). Perché dire “che belle stelle stasera!” può segnare l’effimero di un’emozione volante oppure tendere all’origine di quella bellezza. Solo che le stelle non parlano a «chi non sa fare domande», ma «rispondono soltanto a chi le interroga sapendo giudicare» (Confessioni, X).
Per questo possiamo puntare tutti i nostri telescopi verso le stelle, ma lo sguardo più profondo, quello che punta più lontano, succede nell’istante in cui ammutoliamo di domanda verso chi le sta fabbricando e ce le regala struggendosi d’amore. Ennio Flaiano lo ha folgorato in una battuta fulminea e luminosa come una stella cadente: «L’amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galilei». Oltre quello che vedo anch’io, dentro quello che vorrei imparare a vedere.