Nonostante ogni tanto si levi qualche voce di denuncia degli effetti devastanti che le attuali politiche economiche (sostenute dai governi europei e incoraggiate dalla cosiddetta troika e dagli economisti tedeschi) stanno producendo sul funzionamento effettivo della nostra democrazia, ho l’impressione che il pensiero dominante non lasci alcuno spazio alla pensabilità di alternative possibili.
Per fare qualche esempio basta citare gli editoriali di Galli della Loggia sul Corriere della Sera e quello di Guido Rossi sul Sole 24 Ore. Dalle politiche economiche adottate al livello della comunità viene sostanzialmente neutralizzata ogni opzione politica capace di caratterizzare il ruolo di un partito nazionale rispetto ai vincoli rigidamente imperativi che riguardano la questione del bilancio pubblico. Guido Rossi addirittura ipotizza il regresso ad una fase feudale in cui le gerarchie tecnocratiche impongono a tutti i cittadini europei le loro inderogabili direttive. La sovranità popolare è messa fuori campo e le forze politiche trasformate in attori di una sceneggiata senza alcuna effettività pratica. È proprio ridicolo che la Germania rinfacci al presidente del Consiglio Monti di aver mostrato scarsa sensibilità democratica nei confronti dell’opinione pubblica tedesca alla quale il governo federale ritiene di dovere prestare il massimo ossequio contro le visioni tecnocratiche e autoritarie che sarebbero espresse nelle parole del presidente del Consiglio italiano.
In realtà il punto su cui occorre misurare la tenuta democratica dei Paesi dell’Eurozona non è certo la disputa fasulla tra Merkel che difende la democrazia e Monti che si affida alle tecnostrutture dell’economia europea e mondiale. Il punto vero è un altro ed è quello di come in questi ultimi anni il pensiero economico, che attribuisce ai “mercati” e alla contabilità nazionale il ruolo di unici interpreti del senso comune delle società europee, sia diventato dominante nella coscienza di tutti.
Si è molto discusso del pensiero unico che attribuisce all’economia il ruolo centrale nella società globalizzata e ai mercati il ruolo di criterio ultimo cui affidare la misura di ogni scelta di governo. Tuttavia la forza di penetrazione del nuovo imperativo epocale di corrispondere alle esigenze dei “mercati” è in realtà fuori discussione anche nei critici delle attuali scelte economiche, giacché tutti sono accomunati dalla premessa secondo la quale se non si riesce a riacquistare la fiducia dei mercati la vera alternativa è la catastrofe come in Grecia.
Ora, è su questo pensiero unico che bisogna puntare la lente di ingrandimento per capire lo spirito del nostro presente che, come sempre, è la cartina di tornasole di come effettivamente si svolge la vita quotidiana degli uomini e delle donne.
Nel corso di questo mese ho avuto modo di leggere uno straordinario libro di un pensatore tedesco di origine ebraica, Eric Voegelin, che ha svolto una preziosa riflessione sulla nazificazione della Germania ai tempi di Hitler e che è riuscito a cogliere l’attualità drammatica di certi processi degenerativi anche nella realtà tedesca e occidentale del nostro tempo. Le lezioni di Voegelin sono del 1964 e hanno un’incredibile attualità se riferite a questo periodo della nostra storia. Voegelin sostiene che il processo di nazificazione accompagna l’ascesa di Hitler ma non ne è il prodotto, giacché riflette un lungo periodo di decadenza morale e intellettuale del popolo tedesco, caratterizzato da fenomeni che appaiono tuttora diffusi nella mentalità tedesca ed europea: la nazificazione del popolo tedesco avviene attraverso il progressivo abbandono di ogni coscienza morale e la progressiva disumanizzazione degli individui che compongono il popolo e la comunità.
Viene cioè affermandosi, secondo Voegelin, una progressiva deresponsabilizzazione e un’indifferenza politico-morale che spingono il popolo ad accettare passivamente tutto ciò che viene comunicato da fonti considerate autorevoli sulla base di una costante manipolazione propagandistica. La spersonalizzazione di ogni regola di condotta e la sua legittimazione in base ad una presunta autorità della fonte di comando destituiscono ogni spazio di libera decisione e ogni capacità critica. La manipolazione da parte del bombardamento sistematico di false informazioni, costruite al fine di creare una seconda realtà rispetto a quella effettiva, rende gli uomini − come dice testualmente Voegelin − dei veri e propri” idioti”.
Scrive De Benedetti nella prefazione: “ogni crimine oggi avviene per via amministrativa in nome di un management delle cose al quale non si può dire di no soltanto per una colpevole stupidità. Il pifferaio magico del nostro tempo conduce i topi nel fiume perché ha falsato un bilancio, ha imbrogliato una proiezione di mercato, ha frainteso gli umori del popolo, e però la maggior parte degli uomini non si trova di fronte una camicia bruna in stivaloni ma solo un capodipartimento qualificato come tecnico assolutamente competente. Si somministra il male e il danno ai più deboli in via democratica, si fa male con l’ordinaria amministrazione. Non c’è nessuna grandezza ma solo banalità dell’osservanza”. Voegelin definisce la situazione del senso comune popolare con il termine di buttermelcher, per indicare la diffusione dello spirito piccolo-borghese dell’ipocrisia sociale delle buone maniere come pedigree per un curriculum di inserimento nella società del consenso di massa e come rinuncia totale alla critica di quella che egli chiama la “seconda realtà” della finzione e della menzogna.
L’aspetto che trovo più interessante nella lezione di Voegelin è quanto questo processo di annichilimento della vita interiore del cittadino e dell’individuo sia accompagnato da un mutamento dell’orizzonte dei saperi, orientati sempre più verso una rappresentazione dell’individuo come mero prodotto della storia biologica e sociale. Una sorta di cultura del “neonaturalismo scientista” che abolisce totalmente il problema del significato della vita in rapporto a tutte le “verità che non siano empiricamente dimostrabili”: un’ottusa immanenza nella vita quotidiana che si risolve nella gestione dei propri interessi particolari senza alcun senso di responsabilità e senza alcuna capacità di mettere in discussione ciò che appare coperto dalla autorità del potere.
Voegelin è molto duro nel definire una società in preda ad una inconsapevole nazificazione come caratterizzata da masse di “idioti” − nel senso di uomini privi di ogni coscienza critica e morale − e di gruppi di “farabutti” attrezzati ad utilizzare la stupidità degli altri. Questo spirito opaco di acquiescenza penetra tutte le articolazioni della società: nelle facoltà di medicina si diffondono culture positivistiche ed eugenetiche che tendono a porsi il problema del miglior funzionamento dell’uomo come macchina produttiva; nelle facoltà di diritto si apprende l’arte del formalismo tecnico che nega ogni rilevanza al significato sostanziale degli interessi e dei valori in gioco; negli stili di vita di massa prevale il conformismo e il carrierismo, l’opportunismo e il trasformismo. Ogni essere umano non risponde più ad un’autorità trascendente ma soltanto ad un capoufficio o a un direttore di dipartimento.
Tutti gli opinionisti esaltano la moderazione e la pacificazione degli animi in vista di un benessere diventato oramai puro accesso ai consumi che simbolizzano gli status gerarchici della società. Secondo Voegelin questo enorme degrado, che si caratterizza per una totale disumanizzazione e per una incapacità di fare esperienza delle realtà profonde, dipende dalla negazione di ogni trascendenza capace di ricondurre l’essere umano alla domanda fondamentale della sua finitezza e del suo destino mortale. Certo, da quando è morto Dio non è più facile stabilire perché un uomo non possa torturare e uccidere un altro uomo. In realtà, in una visione come quella descritta da Voegelin ciò che è completamente negato è il valore della vita di ogni persona e, nonostante le continue affermazioni sulla dignità di un essere umano, non si riesce proprio a capire su quali basi possa essere fondata tale dignità fino a garantirla da ogni sopruso e da ogni manipolazione.
Per questa ragione sono convinto e ho scritto più volte che il problema della trascendenza non può essere ignorato da chi si pone il problema della convivenza democratica. Non possono essere assunte soltanto le regole e le procedure come garanzie di un rapporto umano tra gli appartenenti ad un gruppo o a una comunità. È necessario un principio fondamentale e condiviso che riguardi il valore della vita, il suo significato oltre le esperienze particolari. L’ondata fisicalista e l’offensiva delle neuroscienze, che tendono ad eliminare ogni significato profondo della vita umana, sono certamente produttive di disorientamento morale e di perdita di responsabilità verso la vita. Se l’uomo è un puro assemblaggio di molecole, prodotto da uno strano intreccio di caso e necessità, non si riesce proprio a capire in che modo io sono responsabile della mia vita e di quella degli altri. I segni di una disumanizzazione della vita collettiva vanno ben oltre il significato parossistico dell’egemonia del pensiero economico che riduce la contabilità umana a insiemi di numeri e di valori monetari.
Vorrei cominciare da una banalità: i figli della nostra epoca sono in grado di credere ai genitori, a queste coppie di uomini e donne che li mettono al mondo assumendosi la responsabilità di accoglierli per educarli a comprendere il significato della vita? Senza la responsabilità di persone concrete che si assumono il compito di trasformare un piccolo d’uomo in un essere socievole, non ci può essere alcuna “ santificazione” della vita. La santificazione della vita dovrebbe essere il perno su cui si costruisce l’insieme delle relazioni umane che danno vita a gruppi e popoli. Essa però non è fatta di norme giuridiche nè di imperativi religiosi ma dalla consapevolezza che il venire al mondo inaugura uno spazio nuovo per tutta l’umanità. Santificare la vita significa dare a un essere umano le condizioni per entrare in rapporto con gli altri fiduciosamente, per potere amare ed essere amato senza secondi fini. La santificazione della vita significa il rispetto del suo mistero, il porre un limite ragionevolmente argomentato contro tutto ciò che tende a trasformare la natura umana in un puro accidente programmabile secondo calcoli che non hanno nulla a che vedere col senso profondo del venire al mondo.
Una vita democratica che si pone come “seconda realtà immaginaria”, fatta di conteggi e di strategie astute, non pone neppure come problema la questione della difesa della vita umana.