In questo 2012 ricorre il centenario della nascita del pittore americano William Grosvenor Congdon, nato a Providence (Rhode Island) nel 1912 (e proprio nella notte in cui affondava il Titanic). Due mostre importanti sono state promosse per celebrare la ricorrenza. La prima – tuttora in corso fino al 16 di settembre – è allestita nel museo dei Knights of Columbus a New Haven, città degli studi universitari di Congdon, laureatosi a Yale. La mostra, che si intitola The Sabbath of History: William Congdon – Meditations on Holy Week, presenta un affascinante parallelo tra  il percorso artistico di Congdon, dagli inizi, nei tardi anni 40, fino alla morte nel 1998, e le meditazioni sul Venerdì e Sabato Santo scritte da Joseph Ratzinger nel lontano 1967. 



Uno spazio particolare in questa rassegna è dedicato ai crocefissi che l’artista ha dipinto dopo la sua conversione alla chiesa cattolica nel 1959. Ma sono presenti anche importanti pezzi della sua fase cosiddetta “monumentale”, le vedute urbane degli anni 50,  come pure una sezione di dipinti degli ultimi vent’anni, in cui l’artista ha abitato nella Bassa milanese dipingendo silenziose geometrie di campi o nebbie che cancellano ogni forma e oggetto. Il bellissimo catalogo, ordinato dal co-curatore della mostra, Daniel Mason, presenta anche importanti saggi di studiosi americani, come Ellen Landau, Robert Nelson e altri.



La seconda mostra – William Congdon a Venezia: uno sguardo americano, a cura di Giuseppe Barbieri e Silvia Burini e chiusasi lo scorso 9 di luglio – è invece stata promossa dalla Università di Ca’ Foscari nello spazio espositivo che da diversi anni essa ha allestito presso la sua storica sede sul Canal Grande. In questo caso, il focus sono stati gli anni 40 e 50 che l’artista trascorse prevalentemente a Venezia, dipingendo innumerevoli vedute della città che la sua amica Peggy Guggenheim considerava le più strepitose dopo quelle di Turner. Di fatto, è stata la sua prima  rassegna di dipinti veneziani – una quarantina di pezzi da collezioni pubbliche e private in Europa e in Usa – e, soprattutto, la prima che si sia tenuta proprio a Venezia. Alla mostra ha fatto da corredo, oltre ad un agile ed elegante catalogo, un apparato didattico multimediale e interattivo d’avanguardia.



Quale bilancio si può trarre da queste manifestazioni, entrambe realizzate con la collaborazione della William Congdon Foundation, erede e custode del patrimonio artistico di Congdon?

Anzitutto è emersa la difficoltà a contestualizzare l’opera di Congdon nell’ambito dell’arte del secondo Novecento. Egli si presenta come una figura solitaria e, in un certo senso, “fuori tempo” rispetto alla tumultuosa evoluzione delle forme e dei linguaggi artistici di questa parte del secolo. A ciò ha contribuito anche la sua uscita dal mercato dell’arte fin dagli anni 60. Ma questa difficoltà sembra riflettere un problema che Congdon stesso ha vissuto rispetto alla propria identità di pittore. 

Nel suo percorso creativo si coglie una tensione costante a smarcarsi rispetto ai contesti artistici con i quali viene successivamente a contatto, sia in America sia in Europa. Ma nello stesso tempo egli sembra anche alla ricerca di un contesto adeguato attraverso un confronto e un dialogo con altre esperienze. Però tale dialogo, anche rispetto all’Action painting, a cui egli è certamente legato fin dai suoi anni newyorkesi, o con lo Spazialismo italiano, con cui egli è in stretto contatto soprattutto nei suoi anni veneziani, è sempre un dialogo a distanza – sia in senso geografico che stilistico. 

Un secondo aspetto, strettamente legato al primo, riguarda il carattere ciclico del percorso congdoniano. In lui si combinano una fedeltà rigorosa a taluni elementi base del suo linguaggio e una sostanziale irripetibilità. Da cui deriva la necessità di rivedere e riformulare periodicamente, anche attraverso momenti di “crisi”, il proprio modo di dipingere (e la sua stessa conversione religiosa fu rilevante in tal senso). Ma in questo modo è come se Congdon stesso, in un movimento di continua auto-rilettura, avesse cercato di stabilire il contesto adeguato per la ricezione della propria arte. Nello stesso senso può essere valutata anche la sua ricca produzione letteraria, un canale espressivo parallelo alla pittura, ma spesso in significativa dialettica con essa.

La difficoltà di inserire Congdon nel contesto dell’arte del Novecento, infine, è legato anche alla interpretazione del suo persistente naturalismo. La sua fedeltà alla pittura come mestiere va di pari passo con la tendenziale adesione all’esperienza sensibile e al dato naturale. E tuttavia resta da capire come quest’ultimo coesista con il movimento opposto, pure presente in lui, dell’abolizione, della cancellazione della figura.

Questo nodo ci riporta alle origini della carriera di Congdon in quanto pittore, all’indomani della traumatica esperienza vissuta nel corso del secondo conflitto mondiale come ambulanziere dell’American Field Service. Forse la chiave per capire la genesi e lo sviluppo della sua arte sta nell’impulso a rispondere all’impatto con la storia, con la conseguente invenzione di un linguaggio in grado di incarnare l’esperienza della temporalità storica nelle sue diverse sfaccettature. Sembra di poter concludere che l’arte congdoniana è alquanto stratificata al suo interno e che comunque affonda le sue radici in un terreno di problemi e di istanze comune a tanta arte del suo tempo. Resta il fatto che la sua opera tende a svilupparsi secondo una temporalità sua propria, che può sconcertare se la si affronta secondo le categorie della “novità” e del “progresso”. Eppure, essa può oggi offrire una contributo prezioso alla comprensione dell’arte del Novecento.