Un acquazzone imprevisto si rovesciò su Dresda quel sabato pomeriggio di settembre. Sabine corse alla fermata dell’autobus, incontro a suo padre che tornava dall’ufficio, senza ombrello. Amava suo papà; non era mai stato troppo tenero con i figli, educati in modo un po’ rigido, ma a Sabine piaceva attenderlo rincasare prima, il fine settimana, così poteva strappargli il permesso di uscire. «Te l’asciugo io l’impermeabile», e sparì in bagno ancor prima che potesse replicare. Dalla tasca interna cadde sul pavimento un tesserino. C’era la foto di papà, e la scritta inequivocabile: «Ministero per la Sicurezza di Stato». Non era la tessera del sindacato dove aveva sempre detto di lavorare.



Quella sera Sabine si vide con gli amici nel solito locale. Rimase taciturna, avvolta nei suoi pensieri, poi su insistenza di Inge dapprima balbettò qualche parola, finché sbottò: «Mio papà… è uno della Stasi». Quella parola volteggiò sussurrata a mezz’aria per qualche istante e ripiombò in mezzo al gruppetto di giovani raggelandone i volti. Inge prese sotto braccio l’amica e la condusse fuori.



Come Sabine, altre migliaia di bambini erano cresciuti in Germania Est in una famiglia dove i genitori – prevalentemente il padre – erano ufficialmente dipendenti «del ministero degli interni» ma in realtà lavoravano per uno dei numerosi tentacoli della struttura della sicurezza di Stato, la temibile Stasi.

Se da un lato essere «figli della Stasi» poteva dare privilegi, dall’altro la disciplina cui erano stati addestrati i genitori si ripercuoteva in ambito familiare: top secret con partner e parenti sul tipo di lavoro svolto, linea educativa ispirata all’ideologia ufficiale. La consapevolezza di essere costantemente sotto controllo faceva sì che in famiglia si evitassero le critiche verso la politica del Partito e che i figli stringessero legami con cittadini di paesi occidentali o «sospetti». Ci si aspettava che i «figli della Stasi» seguissero tutti i passi richiesti dal regime: prima nei pionieri, poi nella Libera Gioventù e infine – possibilmente – nel Partito. Naturalmente non sempre tutto andava liscio.



Come documenta Ruth Hoffmann in un libro uscito recentemente a Berlino e dedicato proprio ai «Figli della Stasi», vi furono casi in cui i genitori erano convocati dai superiori a giustificare l’operato dei loro figli, rei magari di frequentare gruppi punk, pacifisti, o semplicemente una chiesa. Così bastava che la nostra Sabine si innamorasse del figlio di un diplomatico jugoslavo per mettere in pericolo il posto di lavoro del padre. Gli episodi più drammatici furono quelli in cui un genitore arrestava il proprio figlio o ne rinnegava la paternità, o i figli che se ne andavano per sempre, senza cercare un riavvicinamento neppure dopo l’89. Altri funzionari invece sacrificarono la carriera e preferirono pagare con il pensionamento, il trasferimento o il carcere piuttosto che vedere la propria famiglia andare in rovina.

Cosa doveva fare ora Sabine? Continuare a fidarsi di suo padre e denunciare Inge perché aveva una mezza idea di fuggire all’Ovest col suo ragazzo? O fingere di non sapere nulla e magari approfittare lei stessa di qualche occasione per fuggire? Mettere alle strette i suoi, fare una scenata, o soffocare in quel groviglio di dubbi con cui ora rileggeva ogni episodio passato, rendendosi conto di essere a un tempo vittima e partecipe del sistema?  Un particolare dolce e triste le impediva di prender sonno: pensava alle mani di suo padre che le arruffavano i capelli quand’era bambina – e come si arrabbiava! –, e ora le vedeva scagliarsi contro il ragazzo di Inge, pronte a pestarlo a sangue, com’era accaduto a qualche suo amico. Oppure no, forse non era così, forse suo papà era veramente un semplice «dipendente del ministero», uno dei tanti burocrati anonimi che si barcamenava tra le maglie del sistema.

Un mese dopo, agli inizi di ottobre, anche Sabine era fra le migliaia di cittadini scesi in piazza, a Dresda, in quei giorni euforici che avrebbero portato al crollo del regime. Sabine era là per sé e anche per suo padre, per dimostrargli che il cuore di ogni uomo può cambiare la storia quando rifiuta la vita nella menzogna, e il suo era colmo di quel desiderio di verità, libertà e bellezza, per tanti anni schiacciato sotto la maschera della finzione e dell’ideologia, senza aver trovato ancora risposta.