Tat’jana Kasatkina, direttore del Dipartimento di teoria della letteratura dell’Accademia delle Scienze di Mosca, è al Meeting di Rimini e raccoglie con soddisfazione i frutti di tre anni di lavoro. Ha messo insieme una sessantina di giovani studenti, italiani e russi, e li ha fatti lavorare su un’interpetazione che cambia la lettura di Dostoevskij. Senza le immagini dell’arte occidentale, che il grande russo amava al pari delle icone della tradizione religiosa del suo popolo, non ci sarebbero I Fratelli Karamazov. «È da tanto tempo che desideravo fare qualcosa del genere, perché avevo il desiderio di mostrare come le immagini siano alla base di tutta l’opera di Dostoevskij. Al tempo stesso mi sembrava una cosa irrealizzabile. Ma Dio aveva i suoi piani…».



Professoressa Kasatkina, Dostoevskij ha scritto che «Per narrare un fatto occorre in un certo senso un artista». Che cosa voleva dire?

Dostoevskij ragiona proprio come un pittore. Capisco che possa sembrare strano, d’altra parte far capire questo è esattamente lo scopo della mostra. Per tutto il XX secolo abbiamo letto Dostoevskij essenzialmente come un narratore che fa risuonare delle voci; con la conseguenza che il problema dell’immagine, che in realtà è centrale in tutta la sua opera, è stato quasi del tutto eliminato. Invece Dostoevskij stesso, da teorico della sua propria opera, considerava il processo creativo come creazione di immagini.



Perché questo errore interpretativo?

Si tratta di una «dimenticanza» di dimensioni mondiali, probabilmente iniziata da Bachtin (Michail Michailovic Bachtin, critico letterario russo, ndr). Il suo libro su Dostoevskij è del 1928, in occidente è arrivato dopo, ma ha conosciuto un enorme successo; e la sua tesi dell’eguaglianza delle voci, accolta con favore, ha nascosto il vero fondamento dell’opera dello scrittore.

La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito dice il titolo del Meeting. È una tesi forte sull’uomo e sulla sua verità. Se Dostoevskij avesse letto questo titolo, che cosa avrebbe detto?



Avrebbe detto che è proprio così, perché in ogni uomo vive Cristo.

Non si può dunque capire l’uomo senza Cristo. Ma come avviene in Dostoevskij il guadagno di questa verità?

Ogni suo romanzo è un cammino, quello dell’acquisizione di Dio nel dei protagonisti. Se prendiamo uno qualsiasi dei grandi romanzi di Dostoevskij,vediamo che all’inizio, almeno l’eroe principale, è molto poco preoccupato di quel Dio che vive in lui. Raskol’nikov è attratto dal denaro, Dmitrij Karamazov da Grušenka, Ivan Karamazov odia suo padre, Smerdjakov è ossessionato dal fatto di essere figlio illegittimo. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ebbene, Dostoevskij fa loro intraprendere un cammino verso la profondità, ponendoli tutti davanti o sulla stessa croce di Cristo.

Da dove si riconosce questo percorso?

Dal fatto che i personaggi iniziano a pronunciare parole che, se riportate a una persona che non conosce la trama della storia, sono puntualmente scambiate per quelle che Cristo pronuncia nei Vangeli, quando parla di Se stesso e degli uomini. In questo modo, il personaggio viene condotto dentro gli eventi più decisivi della storia evangelica. Dico sempre che ogni romanzo di Dostoevskij è sempre una storia d’amore dell’uomo con Dio: dell’uomo-personaggio e, si spera, dell’uomo-lettore. Certamente questo è stato vero per l’uomo Dostoevskij.

L’idea portante della mostra è che la storia del Vangelo riaccade. Da dove viene a Dostoevskij questa idea?

Dall’occidente! Anch’io mi sono stupita quando ho scoperto che è una cosa che vi stupisce. Per lungo tempo l’arte occidentale ha avuto questa idea al suo centro, cioè che la storia cristiana prosegue e si rinnova in ogni tempo. Era un’arte che Dostoevskij conosceva molto bene: quando era in Europa, passava tantissimo tempo nei musei. Beveva le immagini con gli occhi.

Porfirij dice a a Raskol’nikov, in Delitto e castigo: «ogni azione, per esempio ogni delitto, appena accade nella realtà, subito diventa un caso del tutto particolare; e, talvolta, un caso privo di ogni analogia con qualsiasi altro precedente». In Dostoevskij ogni umana vicenda si gioca dentro il caso singolo. Che cosa significa questo per la nostra libertà?

Purtroppo noi ci ricordiamo troppo raramente che ogni uomo è un caso particolare. Tutta la vita europea dell’ultimo secolo è costruita sul fatto che l’uomo è tale in riferimento all’umanità o a una generalità etnica, culturale o politica. Su questa base, si è cercato di fare delle leggi che potessero funzionare per tutti. Ma questo tentativo indebito di semplificare la vita è sbagliato, perché non si può giudicare nessuno senza entrare nel concreto della sua storia. Invece i romanzi di Dostoevskij sono pieni di casi di errori giudiziari che mostrano lo scacco in cui incorre il giudizio generale quando pretende di spiegare il caso concreto.

Perché questa scelta?

Perché per Dostoevskij ogni uomo è un punto assolutamente insostituibile nella nostra complessiva possibilità di vedere Dio. Come un uomo può comprendere Dio da dentro la sua pelle, non lo può fare nessun altro. Ogni uomo è un riflesso di Dio, ma «quel» riflesso non c’è in nessun altro uomo.

Cosa ha significato per lei fare questa mostra?

È da tanto tempo che desideravo fare qualcosa del genere, perché avevo il desiderio di mostrare come le immagini siano alla base della creazione di Dostoevskij e per questo debbano essere cercate, trovate, viste con gli occhi nella sua opera. Avevo capito da tempo che lo si poteva fare attraverso i quadri dell’arte occidentale e le icone russe, perché entrambi sono il fondamento del lavoro di Dostoevskij. Al tempo stesso mi sembrava una cosa irrealizzabile. Ma Dio aveva i suoi piani…

C’è qualcosa che l’ha colpita nei giovani che hanno lavorato con lei?

Mi hanno colpito moltissimo, per la loro profondità. Sono cercatori, cercano una parola e cercano qualcuno che dica loro quella parola, sono capaci di ascoltarla e di dare ad essa nuova vita. Sono come candele accese davanti a Dio. Del nostro lavoro insieme conservo una impressione meravigliosa.

«Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?». Cosa può dire di questa provocazione di Dostoevskij?

Questa domanda, che si trova nei taccuini dei Demòni, Dostoevskij se la pone prendendo in considerazione la teologia protestante della sua epoca, una teologia che riconosceva Cristo come figura storica ma che iniziava sempre di più a negare che Cristo fosse davvero Dio. Questa domanda era molto sentita da Dostoevskij stesso, che vi rispose in due momenti; che forse, in fondo, sono semplicemente le due parti di una stessa verità. In quei taccuini, egli scrive che un Cristo solo uomo non è, categoricamente, salvatore. Questa è, direi, la risposta dell’intelligenza, accanto alla quale sta quella del cuore, dell’affetto. Essa si trova nella famosa lettera del 1854, e in realtà precede la prima.

Là dove scrive che «Cristo è la verità, ma se mi dicessero che qui è Cristo e là è la verità, io abbandonerei la verità per aderire a Cristo»?

Sì. In quella lettera scrive che non c’è niente di più profondo, simpatico, bello, virile di Cristo. Non usa nessuna parola che possa indicare la Sua divinità. Parla di un uomo davanti al quale muore di stupore, e dice anche se venisse fuori che tutto quello che Egli ha detto ed è stato detto su di Lui non fosse vero, sceglierebbe comunque di rimanere con Lui.

A quale affermazione dobbiamo credere?

C’è una bellissima storia che si svolge a cavallo tra XIX e XX secolo su un sacerdote russo che poi è stato considerato un santo. A quindici anni, come quasi tutti i giovani di quel tempo, aveva perso la fede in Dio, ma poichè da piccolo era stato molto credente, pregò Cristo così: se Tu esisti, se sei davvero Dio, rivelati a me, e allora crederò. Pregò così a lungo, ma Dio tacque. Allora disse: non sei Dio, ma sei un uomo così meraviglioso che anche se non è vero che sei tu, voglio rimanere con te. In quel momento, Cristo gli si rivelò. Penso che per Dostoevskij, cinquant’anni prima, sia stata la stessa cosa.

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