«Un matematico può essere anche artista». Due uomini, due infiniti esplorati attraverso la creatività o i ranghi serrati della logica. Nell’un caso e nell’altro, l’infinito c’è, opera nella nostra mente. Il filosofo lo studia, ascolta ciò che dicono le neuroscienze, interpeta. Pone domande. L’importante, spiega Michele Di Francesco, filosofo della scienza, ospite oggi al Meeting di Rimini, è non pretendere di ridurre tutto ad un unico discorso, a discapito di quello che la scienza oggi ci fa conoscere. I neuroni non spiegano tutta la realtà, ma non lo fanno nemmeno le pennellate di Monet. Che l’infinito si faccia carne, però, è questione di fede, dice Di Francesco.



Professore, il titolo del Meeting di quest’anno afferma che l’io di cui lei parlerà nel suo incontro di oggi, è in rapporto con l’infinito. Una bella sfida per un filosofo di professione.

Il titolo è molto bello e personalmente sento cone esso una grande affinità intellettuale. Se riflettiamo sulla scienza moderna vediamo che essa nasce dal tentativo di articolare il rapporto tra l’empirico e il razionale, tra sfera dell’esperienza e ambito delle verità universali. A costituire problema era, per l’appunto, un mondo nel giro di pochissimi anni concepito come illimitato, infinito. Subito apparve chiaro che conciliare natura e infinito, passando da una prospettiva soltanto teologica ad una che tenesse conto delle scoperte della scienza, apriva nuovi orizzonti, tutti problematici. Uno di questi è quello del rapporto di anima e corpo.



Che posto ha la soggettività nella nuova visione inaugurata dalla cosiddetta filosofia della mente? O, in altri termini: c’è contraddizione tra il sé dell’io e gli elementi biologici, neurofisiologici che lo compongono?

Alcuni vi vedono una contraddizione. Le neuroscienze ci dicono he la nostra mente, le nostre capacità cognitive, sono il prodotto di moltissimi moduli e agenzie che lavorano separatamente e che possono essere ridotti a funzioni sempre più piccole e minimali, «stupide», fino ad arrivare al neurone, ossia alla cellula. È il tentativo di spiegare l’intelligenza, potremmo dire, riducendola ai suoi costituenti minimi. Ma qualcosa, naturalmente, si perde.



A che cosa allude?

Al fatto che in questa prospettiva non sembra trovarsi facilmente spazio per la nostra nozione di individualità: al fatto che, per esempio, una persona rimane la medesima nel tempo attraverso il cambiamento che occorre al suo corpo, al suo cervello e a tutte le sue caratteristiche biologiche. Fino a che legittimamente si pone la domanda finale: l’unità della nostra mente è un’illusione o è una realtà?

Lei cosa risponde?

Innanzitutto, che siamo di fronte oggi ad un eliminativismo (una forma accentuata di riduzionismo, ndr) un po’ frettoloso. Si parla per esempio, portando alle estreme conseguenze una impostazione humiana (dal filosofo empirista David Hume, 1711-76, ndr) di «società della mente». Se noi siamo solo fasci di percezione, una unità ontologica della persona viene a mancare. «Persona» sarebbe soltanto una nozione forense. D’altra parte – ed è il secondo aspetto che non si può non tenere in considerazione – i dati della scienza ci sono e come tali non possono essere ignorati.

Ma c’è un «io» che è più dei suoi fattori cerebrali? Quale tipo di realtà dovremmo attribuirgli?

Sono un sostenitore dell’idea che esiste una pluralità di livelli a cui può essere studiata la mente, e che questi livelli sono altrettanto solidi ontologicamente. Non sono riduzionista, e non lo sono perché non lo è certamente la scienza attuale. Il livello eminentemente personale (il «sé») e quello biologico non sono assimilabili, riducibili. Viceversa, sono convinto che la prospettiva nella quale collocare questi diversi aspetti debba essere quella di una interazione, di una cooperazione del molteplice. 

 

Siamo ad un cambio di passo della filosofia?

 

La grande sfida è tenere nel dovuto conto quello che oggi la scienza ci dice. Ignorarlo vorrebbe dire commettere un errore altrettanto grave di quello dei riduzionisti. Le neuroscienze rappresentano una grandissima rivoluzione che deve interessare i filosofi e i teologi proprio perché, come la scienza al tempo di Galileo, ci apre un nuovo universo di conoscenze. Lo stesso livello personale – l’io – di cui lei parla nella sua domanda, da Freud in poi non è più così perfettamente trasparente come si pensava, ma opaco. Questo è un dato acquisito che ha posto sotto una luce nuova la nostra fallibilità. Non si può tornare indietro – facendosi fautori, mettiamo, di un pieno autopossesso dell’io -, né nascondere la testa sotto la sabbia. Le neuroscienze ci sono

 

Torniamo al titolo: La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito. Ma questo rapporto è qualcosa di reale o di illusorio? E se è reale, come si documenta?

 

È una domanda molto difficile. Se vuole, il punto è: come fa una mente finita come la nostra, sorretta da un cervello biologico, a pensare l’infinito? Quello che un filosofo può fare è capire come la nostra mente può parlare, ragionare sull’infinito. Questo avviene in molti modi, alcuni dei quali lontanissimi: la matematica e l’arte, per esempio. Prendiamo il linguaggio, un «piccolo» caso di infinito in atto. La ricorsività, la capacità del linguaggio di produrre sempre nuovi enunciati, di parlare illimitatamente, attesta l’infinito. C’è da dire poi che il linguaggio è inserito in una società che produce idee, concetti. I cervelli degli esseri umani, insieme, producono un universo di conoscenza che va ben oltre le capacità individuali, superando così il limite della contingenza biologica.

 

La fede cristiana dice che quell’infinito che l’uomo scopre in sé, si è manifestato e ha accolto in sé, nell’Incarnazione, il finito. Lei, da filosofo e da uomo, come accoglie questo fatto?

 

Lo vedo come una opportunità che tutti gli esseri umani, credenti e non credenti, hanno a disposizione per chiarirsi queste grandi domande che si ripropongono costantemente. È difficile poter pensare di fare l’autopsia a questo tipo di concetti. Da filosofo analitico credo che il pensiero filosofico non possa arrivare a delle conclusioni su questo tipo di tematica. Come uomo, credo che il rapporto tra l’infinito e la nostra finitezza non possa essere evaso. A questo punto entra però in gioco una visione che dev’essere sorretta dalla fede. 

 

Entriamo cioè in un altro territorio?

 

Sono due territori che interagiscono, ma che sono distinti. Non ci vedo un conflitto, nel senso che le persone sono tutte intere e che quei medesimi territori sono lo spazio nel quale tutti noi ci troviamo a vivere. Il matematico può essere anche artista. Se non lo è, l’uno deve però accettare l’altro.

 

(Federico Ferraù)

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