Un giovane studente senza mezzi uccide una vecchia usuraia («un insetto») con il progetto di usare i soldi ricavati dall’omicidio per aiutare sorella e madre e poi, diventato un uomo importante, per contribuire al progresso dell’umanità: si sente un nuovo Napoleone, un uomo a parte e superiore che può usare il resto degli uomini e ogni circostanza per realizzare il proprio progetto ideale. Concepito da Dostoevskij a metà del XIX secolo (ma ispirato ad un fatto realmente accaduto), questo canovaccio avrebbe avuto di lì a qualche decennio delle spaventose ripetizioni in serie attraverso i totalitarismi del XX secolo che, ciascuno all’insegna del proprio «radioso» progetto «ideale» (il bene della classe operaia, il dominio della razza ariana), avrebbero prodotto milioni di morti; per inciso, anche il giovane raddoppia immediatamente il numero delle vittime previste perché finisce per «dover» uccidere casualmente anche la sorella dell’usuraia, che non c’entrava nulla e non era affatto un «insetto».
Delitto e castigo, perché ovviamente è questo il libro di Dostoevskij di cui stiamo parlando, non si ferma però qui; accanto al delitto ci prospetta anche il suo possibile superamento, attraverso un percorso di punizione e di purificazione che per l’omicida, Raskol’nikov, inizia con un incontro. Ed è anche questo un paradosso o una provocazione, perché il protagonista porta un nome che rimanda al Raskol, lo scisma, e sembra corrispondere quindi alla natura di essere a parte che si è attribuito e che lo ha gettato in un mondo fatto solo di negazione; mentre ora tutto sembra poter cambiare proprio con la negazione di questa separazione da tutto il resto dell’umanità: appunto, un incontro. Ma, nuovo paradosso, la persona che incontra è, a suo modo, un altro «insetto», una giovane che ha iniziato a prostituirsi per aiutare la famiglia in difficoltà: dunque, in questo universo opprimente in cui sembra impossibile respirare e uscire dai vicoli ciechi, dalla nebbia e dalle tenebre, abbiamo un altro modo, trasgressivo come l’omicidio, per rispondere alla sfida del reale.
Ormai però il cammino dei due protagonisti, l’omicida Raskol’nikov e la prostituta Sonja, è diverso: la ragazza gli ha letto il passo del Vangelo in cui si narra della risurrezione di Lazzaro e il giovane omicida, con questa prospettiva davanti, inizia una nuova vita, nella galera della Siberia, non più solo, ma accompagnato da Sonja che, per un’altra delle sorprendenti casualità che reggono la vita, porta al collo la croce che le era stata regalata dalla sorella dell’usuraia. Di questa nuova vita, naturalmente, noi sappiamo ben poco, anche perché Delitto e castigo è solo il primo dei cinque grandi romanzi scritti da Dostoevskij dopo il periodo di detenzione in Siberia, nel quale era stata commutata la condanna a morte inflittagli per attività rivoluzionaria.
Di certo sappiamo che c’è un cammino, nel quale la trasgressione iniziale non viene superata automaticamente e in solitudine com’era iniziata. Tra i tanti paradossi e le tante apparenti casualità di questo romanzo può valer la pena ricordare questa volta che il racconto della risurrezione di Lazzaro appare per la prima volta non attraverso la bocca di Sonja, ma attraverso quella di Porfirij, il geniale giudice istruttore che incastra Raskol’nikov, essendo lui stesso non un grigio schiavo delle leggi, ma un uomo libero, del tutto convinto ad esempio che non sempre due più due fa quattro.
È un nuovo paradosso: anche lui è un trasgressore, come l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij che è diventato famoso nella storia della letteratura proprio per questa espressione; ma lui, a differenza dei suoi due «correligionari», Raskol’nikov e l’uomo del sottosuolo, non si lascia trascinare da questa negazione astratta della verità. Se la verità astratta non lo convince, la realtà va però preservata, l’omicida va fermato; e tuttavia, sembra suggerirci la costruzione della storia, non può essere fermato in nome di una legge altrettanta astratta, ma in nome di qualcos’altro, di una verità diversa che pur esiste e che non è meno ragionevole di quella astratta: Porfirij nel romanzo dà prova di una logica ferrea, ben più ferrea e rigorosa di quella del febbricitante Raskol’nikov, che si credeva padrone della ragione e alla fine rischia di cadere nella pura follia e di perdere del tutto la ragione. Se Porfirij e Sonja possono uscire da questo circolo vizioso e aiutare Raskol’nikov, non lo fanno dunque in nome di qualche principio astratto, ma in forza dell’amicizia che nasce da un incontro, di un dono che desta sorpresa, come destano sorpresa la vita e l’uomo stesso nella loro essenza. «Mio carissimo Rodiòn Romanovic, – dice Porfirij a Raskol’nikov – c’è qualcosa da osservare in merito: il caso generale, cioè quello al quale si conformano tutte le forme e norme giuridiche e in base al quale esse sono state previste per poi finire nei libri, non esiste affatto, per il semplice motivo che ogni azione, per esempio ogni delitto, appena accade nella realtà, subito diventa un caso del tutto particolare; e, talvolta, un caso privo di ogni analogia con qualsiasi altro precedente».
L’uomo è più profondo di ogni forma, le sue reazioni vanno sempre al di là di quanto si può prevedere, l’uomo è unico e imprevedibile, infinito e irriducibile, perché tutto quanto esiste nella realtà, «appena accade nella realtà, subito diventa un caso del tutto particolare». E l’uomo, ogni uomo, ciascuno di noi, può vivere, giocandosi ogni giorno in nome di qualcosa che porta dentro di lui e lo rende irriducibile ad ogni legge come ad ogni sua trasgressione.
Come finirà la storia di Raskol’nikov e di Sonja resta dunque per noi una questione aperta: il libro che ce la narra si legge come un romanzo giallo, ha la profondità di un trattato filosofico e desta il fascino di una domanda mai finita sulla libertà e il destino dell’uomo reale.