«Ciò che salva il dialogo è l’essere non una dialettica intellettuale, ma un incontro di esperienze». Al termine del Meeting di Rimini, Ignacio Carbajosa Pérez, docente di Antico Testamento nella Facoltà di Teologia dell’Università San Dámaso di Madrid, ci tiene a liberare il dialogo dalle incrostazioni della cultura dominante. Cita la sua formazione positivista, la Spagna di Zapatero, il dialogo del cristianesimo con islam ed ebraismo. «Dall’essere figli di Dio viene una capacità altrimenti impensabile di abbracciare tutto». Come è stato per Abramo, con cui la storia – tutta la storia – è cominciata.
I cristiani sono capaci di dialogare più degli altri?
Preferisco non fare paragoni, ma direi che senza dubbio l’aspetto della cattolicità – cioè della universalità – è un connotato decisivo della nostra fede. La rivelazione ci ha fatto capire in un modo che non ha eguali chi è l’altro, e questo è possibile perché l’identità del nostro io, consistente nell’essere figli di Dio, ha allargato in modo impensabile i confini della nostra ragione. Ne viene una capacità altrimenti impensabile di abbracciare tutto. È questa la grande battaglia culturale di Benedetto XVI; ma è stata anche quella di Luigi Giussani e, adesso, di Julián Carrón.
Dialogo oggi è una delle parole più inflazionate, il cui valore si è di conseguenza come drasticamente ridotto. Come possiamo recuperarne il valore?
Per otto anni ho avuto a che vedere con il governo Zapatero e con la sua legge sull’educazione alla cittadinanza, sulla quale ho dovuto fare un lungo studio. Lì si parlava tante volte di dialogo, ma era sempre un dialogo fine a se stesso, il cui imperativo era la tolleranza reciproca – altra parola resa intoccabile dall’ideologia dominante -. Nel mio studio invece non mi sono stancato di sottolineare il fatto che la parola dialogos viene dal greco dia-, tramite, più logos, «parola» ma anche «ragione». Il dialogo deve partire dalla ragione e raggiungere ciò a cui tutti noi aspiriamo, cioè la verità. Un dialogo che rinuncia consapevolmente alla verità è finto e fallace.
A proposito della Spagna. Come definirebbe la situazione spirituale del suo Paese?
Il grande male che ha colpito la nostra vita individuale e pubblica è la censura, terribile, del problema del significato. Mettere a tema in una qualsiasi conversazione, dal bar all’università, alla televisione, il problema del significato, della religiosità ultima e quindi del senso della vita dell’uomo è diventato come commettere un delitto, fare qualcosa che non si deve. Dal punto di vista culturale la gente soffre le conseguenze di questa censura, ma non si rende conto che all’origine di tanto disagio c’è la natura dell’uomo. Mistificarla vuol dire fare violenza alla realtà, perché l’uomo è religioso per natura. Quando in un popolo questo si tace, le conseguenze culturali sono tremende. Ma questo vuol dire che la prima sfida è prima di tutto educativa.
Il problema è che oggi la ragione dell’uomo è ammalata dal di dentro e appare sfiduciata sulla sua stessa capacità di raggiungere una verità. Che cosa può salvare le sorti del dialogo?
Proprio per le ragioni che lei ha detto, ciò che salva il dialogo è l’essere non una dialettica intellettuale, ma un incontro di esperienze. In tal senso la crisi economica che tocca la Spagna − ma credo che possa valere anche per l’Italia − è una grazia, perché mette nuovamente la persona davanti a una realtà dura, inevitabile, che richiede sacrifici e dunque una mossa nuova del soggetto. In questo tempo accade di incontrare nuovamente le persone, di fare incontri reali come mai prima, in situazioni − penso ad esempio a tutte le opere di carità − in cui è molto difficile avere o alimentare un’ideologia. Una umanità bisognosa è quella che più si sorprende quando le dai una mano.
Al Meeting si è parlato naturalmente di dialogo interreligioso. A che punto è il dialogo cristiano con il mondo musulmano e con quello ebraico?
Col mondo ebraico dobbiamo attingere ancor di più a quella fonte che è la Bibbia. Non rifletteremo mai abbastanza sulla figura di Abramo: la grande novità nel contrasto con la Mesopotamia è l’ingresso di Dio nella storia e si chiama Israele. Proprio per questo, l’Antico Testamento contiene un potenziale di unità tra cristiani ed ebrei che attende la nostra dedizione e il nostro lavoro. D’altra parte è una via che Benedetto XVI conosce benissimo e sta già percorrendo.
E con il mondo islamico?
Per quanto riguada il mondo musulmano, occore prestare attenzione ai suoi sviluppi, che non sappiamo dove potranno portare loro e noi. Con i nostri amici musulmani che vengono al Meeting facciamo però esperienza di una prima simpatia che è assolutamente decisiva. Ricordiamoci di Ratisbona, dove il Papa disse che «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Io credo che dopo le prime polemiche, molte persone nel mondo musulmano stiano facendo lealmente i conti con quella grande lezione.
Secondo lei da dove derivano le maggiori difficoltà di questo doppio confronto?
Dal fatto che sia nel mondo ebraico, sia nel mondo musulmano non esiste una figura unica di riferimento, come lo è il Papa per la Chiesa, e di conseguenza hanno tante facce. Per noi cattolici costituisce una sfida, perché ci induce a partire dai singoli rapporti che viviamo.
Lei prima ha citato la novità assoluta rappresentata da Abramo. Può spiegare meglio?
La rivelazione di Dio al suo popolo sovverte in modo radicale l’ordine cosmologico, ossia la realtà concepita sulla base della sola natura religiosa dell’uomo. Ciò che inizia l’ordine storico è l’ingresso di Dio nella storia con la chiamata di Abramo. L’origine della storia si chiama Abramo, il popolo si chiama Israele. Un nuovo ordine prende forma, organizzandosi non più secondo la natura, che, nel suo andamento circolare, non ammette novità, ma a partire dalla chiamata di Abramo. Con il quale comincia, propriamente, la storia.
Nella crisi attuale qual è il compito dell’educazione?
Tutti noi abbiamo un modo di concepire il rapporto con il reale, formato dalla nostra tradizione, da tutto quello che leggiamo, viviamo, vediamo. Questa eredità può esser giusta oppure essere intrinsecamente violenta. Io stesso provengo da una percezione positivistica della realtà, che per molti anni ha fatto violenza alla mia vita, fino a quando l’incontro cristiano non ha spalancato completamente il mio orizzonte. Questo è la vera educazione, e dunque anche il nostro compito: un modo nuovo, più libero, di respirare.