Spesse volte la grande poesia rivela la sua grandezza nei dettagli, in incursioni laterali e all’apparenza senza sbocco, in versi che paiono persino inessenziali per il loro deviare dal focus, ma che alla giusta distanza si mostrano non come una sbavatura, bensì come una pennellata sapiente; l’unica, anzi, capace di rendere il componimento quel che poteva e doveva essere. Anche per questo spiace attraversare a volo d’aquila un poemetto come Horae canonicae di Wystan Hugh Auden, la cui vicenda umana e poetica attraversa quasi per intero il Novecento. Spiace perché, essendo grande poesia, di simili momenti laterali il poemetto è colmo e meriterebbe perciò di essere letto tra amici intorno a un falò sulla sabbia, più che essere affidato alle poche righe di un commento come dovremo contentarci di fare.
Uscito in frammenti nei primi anni Cinquanta, Horae canonicae viene pubblicato in volume per la prima volta in The Schield of Achilles del 1955, a un’altezza in cui Auden ha ormai ampiamente sorpassato il fascino per il marxismo che l’aveva infiammato negli anni Trenta, virando verso posizioni più conservatrici. La notazione di carattere politico non è superflua, se è vero che il poemetto fonda la propria struttura sul contrasto tra il soggetto narrante, l’Arcadico, fautore di un’innocenza naturalistica, e il suo «anti-tipo», l’Utopista, che brama una «Nuova Gerusalemme» in cui «i templi saranno vuoti ma tutti praticheranno le virtù razionali» (Horae Canonicae, Vespri, 20).
Per aiutarci a capire meglio di che cosa stiamo parlando, non sarà inutile descrivere brevemente la trama e la struttura dell’opera. Nella sua forma definitiva, Horae canonicae è la narrazione allegorica del sacrificio di Cristo e dell’eterno dramma dell’uomo, combattuto tra il desiderio di accogliere Dio e quello di negarlo fino al deicidio. Come in ogni allegoria che si rispetti, tuttavia, l’oltre, il significato simbolico, è inscritto dentro il segno, gli è immanente, ed è perciò leggibile solo al suo interno: nel nostro poemetto, la narrazione entro cui si nasconde quella del sacrificio di Cristo è lo svolgimento di una giornata scandita dalle ore canoniche del titolo – Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespri, Compieta, Lodi – al cui centro si staglia l’esecuzione di una condanna a morte.
L’ora Prima descrive il risveglio del soggetto narrante, il personaggio che nel poemetto dice io e che presta a noi lettori il punto di osservazione di ciò che accade. È il momento in cui, dopo la singolare sospensione del sonno, la coscienza, ridestandosi, riavvia il corso della storia. Stupore e desiderio dominano questo primo istante, quando «richiamato dal mondo delle ombre alla vista, / dall’assenza all’ostentazione» (Prima 13-14) l’io si accorge delle cose e riconoscendole si riconosce, intuendosi immediatamente non solo: «Santo questo momento, tutto nel giusto, / mentre in completa obbedienza / al grido laconico della luce, aderente / come un lenzuolo, prossimo come un muro, / là fuori, stabile e roccioso come una montagna, / il mondo è presente, tutt’intorno / e so che io sono, qui, non solo / ma con un mondo e ne gioisco» (Prima, 17-24).
Ma se il mondo è «tutt’intorno», a questo istante fugace, al momento in cui l’uomo è «l’Adamo senza peccato nel nostro principio» (Prima, 31), non può che seguire immediato l’esservi chiamati, l’agirvi. E cosciente o meno che ne sia, la prima azione di ogni uomo è il desiderio: «Respiro; e questo è in sé desiderare / non importa cosa, essere saggi, / diversi, morire e il costo, / come che sia, è il Paradiso / Perduto e me stesso dovuto alla morte» (Prima, 33-37). Come l’anima semplicetta di Dante, l’uomo si accorge delle cose e le desidera. Ma senza la grazia, come ci ricorda San Tommaso nel suo commento alla Seconda lettera di Pietro, tanto più percepiamo le cose del mondo e il desiderio di esse, tanto più insorge il terrore della morte dettato dall’intuizione di una loro fragilità ultima. Il mondo appena lodato diventa allora subito nemico e il nostro stesso corpo nulla più che un infido complice: «[…] questa carne sveglia, / non è un compagno onesto, ma mia complice adesso, / mia assassina domani […] / impaurita del nostro compito per la vita, del morire / che il nuovo giorno reclama» (Prima, 42-44; 47-48).
Trascinato nella sua «routine di lode e di biasimo» (Prima, 28), il giorno scorre e l’ora Terza vede levarsi e avviarsi alla propria giornata gli attori del sacrificio: il boia che ancora non sa chi gli sarà dato da ammazzare; il giudice che non sa «per mezzo di quale sentenza / applicherà sulla terra la Legge che governa le stelle» (Terza, 9-10); i «Pezzi Grossi» e i pesci piccoli della comunità cittadina, attesi ai desideri piccini in cui hanno già cristallizzato il desiderio infinito del loro primo respiro; e la vittima, l’unica che conosce sia il fatto che la forma, l’unica che «sa che entro il tramonto / avremo avuto un Venerdì Santo» (Terza, 38-39). Dopo Sesta, in cui l’io narrante medita il rapporto tra vocazione personale e storia umana, l’ora Nona vede i personaggi singolari uscire di scena e lasciare il campo al volto anonimo e alienato della folla, che assiste all’esecuzione bramosa e assente a un tempo, incapace anche solo di ricordare che cosa realmente sia accaduto e perché desiderasse così tanto quella morte.
Giunge così l’ora del vespro, l’ora inesorabile in cui tutti posano le maschere indossate per attraversare il giorno e tornano per poco se stessi, prima che la sera e il ritorno a casa li ingaggino in una nuova finzione. È in quest’ora, in questo breve tempo in cui ognuno è davvero sé, che il contrasto tra l’Arcadico e l’Utopista, fin qui accennato sottotraccia, si esplicita salendo in scena: «Sole e Luna prestano le loro maschere di convenienza, ma in quest’ora di civile crepuscolo ognuno ha da indossare la propria faccia. // Ed è in quest’ora che i nostri due sentieri si attraversano» (Vespri, 5-6).
Camminando su un marciapiede qualunque della sua città qualunque, l’io incontra dall’altra parte un uomo che percorre il suo stesso cammino e il momento di sospensione tra il giorno e la sera, l’ora di civile crepuscolo, glielo rivela d’istinto nemico. In un attimo, ciascuno dei due «riconosce il suo Anti-tipo: che io sono un Arcadico, che lui è un Utopista» (Vespri, 7). Fissata icasticamente in una frase – e largamente motivata nei versi successivi – l’inimicizia tra l’io arcadico e il suo avversario è in realtà l’inimicizia radicale e contronatura che abita ogni gesto dell’uomo, quell’estraneità da noi stessi e dall’altro che sembra costringerci – per usare i versi di Mario Luzi – a «convivere in uno stesso tempo e luogo / e farci guerra per amore» (Mario Luzi, Presso il Bisenzio, 72-73). Se è vero infatti che il confronto tra l’ideale dell’Arcadico e quello dell’Utopista fa emergere impietosamente la violenza di quest’ultimo e la sua evasione dal presente per un futuro di giustizia soffocante, lo è altrettanto il fatto che anche l’Arcadico – nonostante la sua attrazione per la superficie dell’Essere – è perennemente in fuga dal qui e ora: «Una ragione del suo disprezzo è che ho solo da chiudere gli occhi, passare il ponticello di ferro fino all’alzaia, prendere la chiatta attraverso il breve sottopasso di mattoni / ed eccomi di nuovo nel mio Eden […]» (Vespri, 21-22).
È in grazia di questa specularità che all’Arcadico protagonista basta uno sguardo per accorgersi che «tra il mio Eden e la sua Nuova Gerusalemme nessun trattato è negoziabile» (Vespri, 16). Maggiore o minore che sia la loro comprensività, infatti, il mondo degli ideali disincarnati non può in ultimo sfuggire l’alternativa violenta e radicale tra l’assimilazione di ciò che si incontra o la sua uccisione. Un’uccisione che – nella nostra età di vizi e virtù moderati – è facilmente sublimata nell’evitazione, in quell’ignorarsi cordialmente risentito con cui concediamo al prossimo uno spazio, purché non si azzardi a entrare nel nostro e disturbarci: «Così, con un’occhiata di passaggio, cogliamo l’uno la posizione dell’altro. E già, incorreggibili, i nostri passi si fronteggiano e recedono, ciascuno verso il proprio genere di cena e sera» (Vespri, 25).
Ma come il mondo c’è, c’è altrettanto il bisogno di coglierne il senso. Inestinguibile, ultimamente impermeabile ai nostri tentativi di circoscriverla, l’inesorabile presenza delle cose ci insegue e ci interroga. E nell’ora scura della solitudine, quando si è stesi a letto e ancora gli occhi non si sono chiusi, il giorno trascorso reclama a voce piena il suo vero significato. È in quest’ora che i singoli istanti, affidati alle sole nostre mani, si rivelano eliotianamente «un mucchio di immagini frante» (T.S. Eliot, The Waste Land, i. The Burial of the Dead, 22) che noi non sappiamo ricomporre in unità: «[…] Ora che un giorno è il suo passato, / il suo ultimo atto e sentimento, dovrebbe arrivare / il momento della memoria, / quando l’intera cosa acquista senso: viene, ma tutto / quello che ricordo sono porte che sbattono / due massaie che gridano, un vecchio che gorgoglia, / lo sguardo selvaggio d’invidia di un bimbo. / Azioni e parole che vengono buone per ogni racconto / e di cui non vedo né trama, né senso […]» (Compieta, 6-15).
Dalla congerie degli istanti non emerge il senso e l’unica possibilità per l’Arcadico sembra infine quella di accettare il perpetuarsi del ciclo quotidiano e lasciare la giornata al suo senso parziale, a quel velo di «menzogna» che la rende «un passo verso il nulla» (Compieta, 43). C’è tuttavia una spina inesorabile, la percezione di un «ritmo / al di là di ogni misura o comprensione» (Compieta, 47-48) che non glielo permette. Ed è in quest’ora tesa sul limitare della notte che irrompe la percezione di un’alterità da pregare, che il riconoscimento grato del mattino di essere «non solo / ma con un mondo» (Prima, 23-24) si spinge all’intuizione di un Creatore che così come dà le cose, così può – lui solo – salvarle: «Possono i poeti (possono gli uomini della tv) / essere salvati? Non è facile / credere a un’inconoscibile giustizia / o pregare in nome di un amore / il cui nome si è scordato: libera / me, libera C (il caro C) / e tutti i poveri figli di cagna / che non ne fanno una giusta, risparmiaci / nel giorno più giovane in cui / verremo riscossi dal sonno e i fatti saranno fatti / (e saprò esattamente che cosa è accaduto / oggi tra mezzogiorno e le tre) / perché si possa anche noi venire al picnic / senza nulla da nascondere e unirci alla danza / che si muove in pericoresi, / girare intorno all’albero che resta» (Compieta, 49-64).
Una nuova notte e un nuovo mattino seguono la preghiera di Auden. E se lo scenario in cui si cantano le Lodi del nuovo giorno è il medesimo dei giorni passati e di quelli che verranno, c’è nel risveglio che «il canto del gallo comanda» (Lodi, 3) un sentimento diverso di sé, la coscienza che nel rapporto tra l’io e le cose si è finalmente svelata l’unica cosa che questo rapporto può liberare e salvare: «Chiaro risplende il giorno sulle creature mortali; / gli uomini si accorgono dei loro vicini: / in solitudine, per compagnia / […] / Gli uomini si accorgono dei loro vicini: / Dio benedica il Regno, Dio benedica il Popolo: / in solitudine, per compagnia / […] / Dio benedica il Regno, Dio benedica il Popolo; / Dio benedica questo verde mondo temporale: / in solitudine, per compagnia» (Lodi, 4-6; 10-12; 16-18).