In mezzo a tanta produzione letteraria odierna che ammicca al trasgressivo, al giovanilismo e alla libertà eslege (libera da doveri e da assunzioni di responsabilità) la scrittrice sarda Michela Murgia (1972) dimostra che si può ancora vendere nelle librerie parlando semplicemente dell’uomo, dei suoi affetti e delle sue storie. Romanzo breve o, se preferiamo, racconto lungo costruito sulla base di un testo già pubblicato su Il corriere della sera, “L’incontro” è l’ultima opera di Michela Murgia, dopo quel Accabadora che ha vinto il Premio Campiello nel 2010 ed è stato tradotto in una ventina di paesi.
La narrazione è condotta con gli occhi spalancati e stupiti di un ragazzino di undici anni. Almeno in parte e con le dovute differenze, la lettura richiama sia la produzione di Verga che quella di Pavese per l’essenzialità della scrittura, per la dimensione del recupero memoriale, per l’attaccamento alla terra di origine e per la presenza del mito commista con quella della storia. La dimensione mitica, propria dell’infanzia e di un mondo ancestrale, rimasto sempre uguale e per certi versi immutato, come nel paese sardo di Cabras, si mescola a quella epica, corale, di popolo. Chi non ricorda l’epopea della famiglia Toscano, i Malavoglia, nel paese di Aci Trezza?
Qui l’arco della storia è ridotto a un’estate come nell’opera di Pavese La bella estate e i protagonisti sono tre amici come ne “Il diavolo sulle colline” (sempre di Pavese). Qui, non è una famiglia a essere protagonista, ma un’amicizia forte, come quella che si forma per le strade, più stretta dei vincoli di parentela. «La strada e l’averci giocato insieme offre ai bambini una più alta dimensione di parentela, che nemmeno da adulti sarà mai dimenticata. […] Non c’è stato di famiglia che possa vincere la battaglia contro i pomeriggi di sole estivo in cui si è riusciti a infilare il primo pallone in porta tra le grida dei compagni, o liberato insieme una libellula gigante entrata per sbaglio in un retino di farfalle».
Maurizio, Franco, Giulio vivono un’estate magica, nel 1986, l’estate dei topi, delle palle incendiarie, in cui quelli che potrebbero essere piccoli fatti agli occhi di adulti estranei al gruppo e dimentichi di quell’età diventano grandi imprese, gesta epiche, che segneranno tutta l’estate o, addirittura, tutto l’anno nella cittadina di Cabras.
Il paese vive «di un respiro comune ritmato dal suono delle campane: la chiesa parrocchiale di santa Maria» è «il suo polmone, ma più per questioni di organizzazione cittadina, che per aneliti di fede. Il primo regolatore della vita civile» sono, infatti, «i santi di categoria, celesti protettori sindacali di questo o di quel gruppo». Prevale una dimensione comunitaria, collettiva, dove l’appartenenza alla vita di paese, ai costumi, alle tradizioni fa sentire uniti.
«A Crabras col «noi», […] bisogna farci i conti, perché […] parlavano tutti di sé al plurale con la ronzante fluidità di uno sciame d’api intorno all’alveare. […] Non era un pronome come negli altri posti, ma la cittadinanza di una patria tacita dove tutto il tempo condiviso si declinava così, al presente plurale». Ma un fatto porterà a dividere questo «noi» facendo percepire l’esistenza all’interno nello stesso paese di un «loro»: è la nascita di un’altra parrocchia con la conseguente spaccatura in due di Cabras. Macrocosmo e microcosmo portano in sé la stessa aspirazione alla comunione, all’unità e all’amore così come pure la medesima radice di male, proveniente dal cuore dell’uomo, che è il peccato originale.
Non c’è perfezione, ma la libertà può giocarsi di volta in volta nella scelta drammatica tra l’adesione al bene e l’attuazione del male. Così, la discordia del paese rischia di contaminare anche l’innocente e fraterna amicizia dei tre ragazzi. La processione dell’incontro, una delle principali del paese, in cui la statua della Madonna e di Gesù si dovrebbero incontrare, rischia di tradursi in una guerra aperta nella piazza principale. Icastica la scena delle litanie della Madonna in cui i due schieramenti opposti invocano la Madre di Dio con quel «Prega per NOI» in cui quel pronome NOI si è fatto il primo termine del polo dialettico NOI/LORO NEMICI.
Ma ecco l’imprevisto. Solo all’ultimo lo scontro si evita grazie al buon senso dei due preti. Si può ripartire ora, come prima, magari con una consapevolezza maggiore. «Anche un bambino un po’ di dentro e un po’ di fuori alla fine lo capisce che ogni tanto quel plurale va passato ad un setaccio più sottile». Franco riprende, infine, a giocare insieme a Maurizio e a Giulio.