Quando l’uomo non guarda più in profondità la realtà con lo stupore del bambino, quando la realtà non è più segno di Altro e possibilità di inoltrarsi in un senso, allora l’unica possibilità è escludere il reale ed evadere in un mondo che non ha problemi. Crediamo che sia questa una delle possibili interpretazioni del desiderio della cultura contemporanea di non sottostare al reale, ma di creare col pensiero (l’esito è l’ideologia) o di evadere in mondi virtuali e immaginari. Il desiderio di evasione è diretta conseguenza di un cammino che ha portato l’uomo a percepire la realtà come carcere, ragnatela, cratere magmatico e incomprensibile da cui fuggire.



Il grande pittore Vincent Van Gogh (1853-1890), geniale innovatore artistico, tanto incompreso in vita quanto apprezzato e rivalutato in morte, in una lettera indirizzata al fratello usa l’immagine dell’uccellino in gabbia per rappresentare la propria condizione esistenziale. In queste parole emergono la sua ansia e il suo anelito di libertà e di compimento totali: «C’è fannullone e fannullone. C’è chi è fannullone per pigrizia […]. Poi c’è l’altro tipo di fannullone, il fannullone per forza, che è roso intimamente da un grande desiderio di azione, che non fa nulla perché è nell’impossibilità di fare qualcosa, […] perché è come in una prigione, chiuso in qualche cosa, perché la fatalità delle circostanze lo ha ridotto a tal punto; non sempre uno sa quello che potrebbe fare, ma lo sente d’istinto: eppure sono buono a qualcosa, sento in me una ragione d’essere! […] Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c’è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c’è qualcosa da fare, ma che non può fare: che cosa è? Non se lo ricorda bene, ha delle idee vaghe […] e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa e lui è pazzo di dolore».



Van Gogh è tristemente cosciente dell’incomprensione di cui è fatto oggetto, rappresentata dal dileggio che gli uccelli liberi dalla gabbia gli rivolgono. Nel prosieguo della lettera il pittore racconta di aver fatto esperienza di quanto possa davvero liberare la condizione umana: «Sai tu ciò che fa sparire questa prigione? È un affetto profondo, serio. Essere amici, essere fratelli, amare spalanca la prigione per potere sovrano, per grazia potente. Ma chi non riesce ad avere questo rimane chiuso nella morte. Ma dove rinasce la simpatia, lì rinasce anche la vita».

Pochi anni più tardi, nel 1893, il pittore norvegese Edward Munch (1863-1944) dipinge L’urlo, che è divenuto simbolo dell’angoscia esistenziale, della solitudine in cui si trova l’uomo e dell’incomunicabilità che contraddistingue i rapporti umani. Un volto scarnificato emette un grido che si propaga come un’onda fino a riempire tutta la scena senza per questo toccare e coinvolgere i personaggi rappresentati. Nel dipingere Munch accompagna l’opera con la riflessione: «Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di un rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando».



Non ci sfuggirà la somiglianza tra la riflessione di Munch e quanto scrive san Paolo sulla natura e sulla realtà che sembrano gemere come una donna per le doglie del parto. La differenza sta tutta lì, però, nella prospettiva della sofferenza e del pianto: in san Paolo il dolore è un’attesa per un evento grande, in Munch non trova risposta.

In modo ancor più paradossale ed espressionistico lo scrittore boemo Franz Kafka (1883-1924) rappresenta la condizione dell’uomo nel romanzo La metamorfosi (1915). Un impiegato di nome Gregor Samsa si trova trasformato in un orribile scarafaggio che non può più uscire di casa e neppure dalla sua camera, incompreso, fastidioso e ingombrante non solo per il mondo esterno, ma anche per la sua famiglia. Perso il lavoro, morta ogni comunicazione con gli altri, anche con quella sorella che, unica, aveva cercato di relazionarsi ancora con lui e di capirlo, Gregor alla fine si lascia morire di inedia.

Così, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tre artisti, Van Gogh, Munch, Kafka, anticipano in diverse arti quella percezione di crisi dell’uomo che caratterizzerà gran parte dei decenni successivi. Un uomo che è inerte, angosciato o addirittura paralizzato, come è descritto dallo scrittore irlandese James Joyce (1882-1941) nella raccolta di racconti Gente di Dublino, pubblicato solo nel 1914, ma già composto in gran parte tra il 1904 e il 1905, quindi immediatamente dopo Il Fu Mattia Pascal di Pirandello. Ivi, sono descritti nella loro quotidianità personaggi di età differente che si trovano in una condizione esistenziale di paralisi. Una volta che ne diventano coscienti, cercano la soluzione con la fuga che si conclude irrimediabilmente con il fallimento.

Qualche decennio più tardi, Albert Camus (1913-1960) identificherà, invece, nel mito di Sisifo la situazione esistenziale dell’uomo. Sisifo è stato condannato dagli dei a far risalire su un monte un macigno, ma quando sta per arrivare in cima il macigno ricade giù e Sisifo riprende in eterno la sua fatica, senza sosta. Non c’è nulla di più assurdo che lavorare e faticare senza ottenere mai alcun esito dalle proprie azioni. Camus reinterpreta il mito considerando Sisifo addirittura felice: «Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua […]. L’uomo assurdo, quando contempla il suo tormento, fa tacere gli altri idoli […]. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice». Perché, ci chiediamo noi, Sisifo dovrebbe essere felice? Per il suo sterile lavoro, perché è cosciente del suo destino, perché opera in maniera indefessa senza uno scopo? Potremmo più facilmente rispondere che l’assenza di una ragione per cui lavorare, faticare e alzarsi al mattino può solo rendere la vita disperata e tragica. Aveva giustamente scritto Cesbron che «tutto l’errore della vita è che l’uomo vuole essere perfetto e non santo», cioè felice. Nonostante la sua titanica fatica, Sisifo non giungerà mai neppure alla perfezione, cioè al compimento, perché la sua opera non si concluderà mai. Ecco perché, sostiene Camus, la reazione più naturale a tale condizione esistenziale è quella della rivolta, della ribellione. Sappiamo bene dove porterà di lì a pochi anni questa teorizzazione.

Altrove, nel celeberrimo romanzo La peste, Camus descriverà la vita dell’uomo nella iperbolica e paradigmatica condizione della città di Orano, dove si diffonde gradualmente il morbo mietendo morte senza che nessuna autorità voglia riconoscerlo. Il male e la distruzione devastano quelle che sembravano isole di felicità mostrando all’uomo il volto di un destino cui non ci si può contrapporre. Unica posizione umana auspicabile è quella del dottor Rieux che combatte in maniera energica non per sé, ma per tutti, fino a che il morbo non è debellato. Ma è una vittoria momentanea. Senza un senso e un Mistero che possano dare significato a tutto, anche al male, alla sofferenza e al dolore, anche la lotta più indefessa assume i contorni di un titanico agire contro una forza più grande di noi. Questo è il trionfo dell’assurdo, perché non c’è sforzo umano che possa dare consolazione da solo di fronte alla morte.