Era probabilmente inevitabile. La storia non è mai finita; al contrario, tende a ripetersi. Francis Fukuyama, purtroppo o per fortuna, con la sua nota tesi non solo a quanto pare ha preso una clamorosa cantonata, ma si è attirato facili e un po’ ingenerose ironie (quanti hanno davvero letto il suo libro?). D’altra parte, dove ha fallito Hegel è improbabile che predizioni altrettanto ambiziose riescano a un intellettuale postmoderno.



Tant’è. Non solo la storia ricomincia sempre ma stando alle cronache culturali e a mille indicatori qualche volta quasi inafferrabili ma complessivamente lampanti, pare che anche autori che sembravano tramontati siano prossimi a risorgere.

Il più clamoroso di questi revenant è certamente Karl Marx. Da qualche anno tutta un’ampia letteratura, più o meno accademica o popolare, prendendo spunto anche da eventi filologici innegabilmente importanti come la pubblicazione in corso delle opere critiche (la cosiddetta MEGA), evidenzia la sua modernità, la consistenza attuale delle sue analisi, la pregnanza di molte delle cose che ha detto per comprendere i temi della congiuntura che viviamo. Certo, nessuno (o quasi) si spinge all’adesione tout court al marxismo in tutti i suoi addentellati teorici e men che meno in tutto il suo portato storico. I distinguo sono d’obbligo, e anche un po’ di comodo. Ma la chiave del nuovo successo del filosofo di Treviri sta nella decadenza che vive l’Occidente, che apre uno spazio enorme per rispolverare ben note tradizioni rivoluzionarie.



E allora ecco che il più noto filosofo vivente è uno strano comunista spettacolare come Zizek, mentre Toni Negri mantiene una audience non disprezzabile e Alain Badiou accresce i suoi seguaci man mano che si radicalizza. Sono solo esempi, ovviamente, non sovrapponibili dal punto di vista teorico ma convergenti nel messaggio; e numerosi altri potrebbero essere fatti. E che la tendenza vada imponendosi anche nel sentire comune lo testimonia un recente sondaggio della BBC, che ha incoronato Marx quale filosofo più grande di sempre. Con gli ovvi limiti che può avere una misurazione del genere, è tuttavia probabile che colga un certo orientamento.



Se poi si esce dalla ridotta della speculazione filosofica le conferme si moltiplicano. Qualche settimana fa è stato proposto, da intellettuali, filosofi ma anche economisti, etc., molto noti, un appello impegnativo: si tratterebbe di liberarsi dal pensiero unico ovvero egemonia neoliberale, come se esso dominasse la discussione pubblica. Di solito però qui siamo, piuttosto che dalle parti del marxismo, presso quel curioso rimpiazzo che è il pensiero di Keynes. Curioso, perché Keynes era tutt’altro che marxista, ma rappresenta egregiamente l’ideologo di riferimento delle forme effettive della socialdemocrazia europea. Ad ogni modo le accuse trasversali nei confronti del “pensiero unico neoliberista” sono quotidiane, tanto più veementi quanto più generiche. Il liberismo, ovviamente “selvaggio”, è il più diffuso imputato della crisi economica in corso, da parte di chi dimentica le responsabilità del debito pubblico e dunque della maniera in cui è stato costruito lo stato sociale. Men che meno si immagina di allargare lo sguardo ad una visione storica complessiva, dove l’ascesa di gigantesche economie emergenti implica, probabilmente, che il tempo delle vacche grasse europee è finito per sempre. 

Forse sarebbe il caso di provare a emanciparsi dalla presa di questo lessico, ponendosi alcune semplici domande. Per iniziare, magari: se il liberismo è selvaggio, significa forse che ce n’è qualche variante non selvaggia, e dunque accettabile? Non sarebbe da sottovalutare, in effetti, che di liberalismi (e liberismi: ma è questa stessa distinzione ad essere un po’ sospetta) ce ne sono davvero tanti e la loro riduzione ad una monotona caricatura è grottesca. E poi: gli annunci e i simbolismi pararivoluzionari sono mai andati davvero fuori moda? Lo stato sociale in Europa è stato, finora, significativamente ridimensionato? Il liberismo esercita veramente una qualche forma di egemonia nel discorso pubblico e nel sentire comune? Non è ampiamente diffusa invece, ad esempio, una retorica spesso un po’ vaga sulla cosiddetta “decrescita”?

Oppure si rifletta sull’immagine ampiamente negativa, largamente diffusa anche se ovviamente non totalmente condivisa, che si ha di Margaret Thatcher e in qualche misura anche di Ronald Reagan, per menzionare i due simboli della riscossa liberista degli anni 80 e tacendo le considerevoli differenze tra i due (per esempio il fatto che durante la presidenza Reagan la spesa pubblica americana è aumentata anziché diminuire). O ancora, meditando su simboli e riscosse simboliche, si consideri l’esaltazione tutt’altro che casuale del monumento del welfare, il National Health Service, nel corso della cerimonia di apertura delle Olimpiadi, in mezzo ad altri emblemi accuratamente trascelti della storia britannica.

Se è così nel mondo anglosassone, che nella vulgata rappresenterebbe il fortino dei liberisti, nella realtà italiana, che conosciamo meglio e ci riguarda più da vicino, potrebbero essere formulate domande ancora più efficaci. Qualcuno ha notizie di grandi riforme liberali (o liberiste, se è per questo) negli anni della presunta egemonia del pensiero unico di cui sopra? Il grande partito che dichiarava di ispirarsi a quegli ideali, come è noto ha fatto una politica reale ben diversa; e non solo per incapacità o tatticismo, visto che il suo ministro più in vista per anni ha tuonato contro il “mercatismo”.

E ancora: nella deprecazione generalizzata per la crisi è più popolare biasimare gli infidi liberisti piuttosto che le mille miserie e inefficienze di uno Stato che conosciamo fin troppo bene ma che tendiamo a condonare. Questa è una singolare schizofrenia: criticare ad ogni piè sospinto lo Stato inetto, e ovviamente i partiti che concretamente lo incarnano, mentre si esalta a priori il “pubblico”. Naturalmente, pubblico non è sinonimo di statale: ma è così che quasi sempre viene inteso, al costo della contraddizione. L’inveterata diffidenza nei confronti del privato sembra un automatismo pavloviano: alla faccia del pensiero unico.

E ovviamente, in tutto questo la prospettiva propriamente liberale della sussidiarietà viene, con malcelata soddisfazione, totalmente rimossa. Tutta questa topografia concettuale andrebbe in effetti articolata molto più riccamente e dettagliatamente, differenziando e distinguendo, con quel discernimento che è ostacolato dalle etichette abborracciate e dalla guerra per bande che fa le veci dello sforzo intellettuale. 

La morale della favola è un po’ terra terra. Non solo la storia non è finita col trionfo definitivo del liberalismo, come pensava Fukuyama, ma proprio al contrario si tratta sempre della solita vecchia storia. Ossia: la borghesia si vergogna di se stessa, con la cattiva coscienza che la perseguita da almeno un secolo; e le casematte della cultura sono in mano ai soliti noti.