Lewis non è solo il brillante autore delle Cronache di Narnia, lo scrittore moralista di successo, esperto nell’uso del registro ironico con cui dava forza ai contenuti della sua rilettura di un pensiero cristiano radicato nell’esperienza dell’uomo contemporaneo (come nelle arcinote Lettere di Berlicche).

Lewis è stato anche un insigne studioso di filologia e letteratura inglese, professore nelle prestigiose università di Oxford e Cambridge, esponente di punta del gruppo degli Inklings, a fianco di Tolkien e Charles Williams. Nei suoi scritti più strettamente accademici, uno degli obiettivi fondamentali è la messa a fuoco dell’universo culturale che ha inquadrato la vita dell’uomo europeo fino alla nascita del mondo pienamente moderno. L’orizzonte intellettuale che lo ha abbracciato è quello che si è riflesso nella tradizione enciclopedica di un sapere ridotto a una unità facilmente accessibile dall’uomo antico e medievale. La scienza elementare di cui era intriso ricombinava in sé la filosofia degli antichi intrecciandola con i dati del patrimonio biblico e teologico. Dall’insegnamento delle scuole alla predicazione disseminata dai pulpiti delle chiese, la mentalità collettiva di dotti e uomini semplici si lasciava imbrigliare in una cornice che riaffiorava come sostrato di base nel cuore dei monumenti della scrittura letteraria più alta così come nelle visioni immaginifiche dei poeti e degli artisti di ogni tempo. Dal ciceroniano Sogno di Scipione al Paradiso di Dante, dai compilatori delle Summae della rinascita gotica al Milton del seicentesco Paradiso perduto, si disegna, agli occhi di Lewis, una continuità di fondo in cui egli si sente chiamato a calarsi muovendo da un desiderio di immedesimazione, spinto dalla logica della simpatia e dal credito più totale concesso alla diversità del passato con cui ci mettiamo a paragone ricostruendone la storia.



La parabola della visione del mondo spazzata via dalla rivoluzione astronomica dischiusa da Copernico e Galileo è al centro, in particolare, del mirabile saggio L’immagine scartata, tradotto in italiano dall’editrice Marietti, ma ritorna in numerosi altri scritti minori dello studioso inglese.

Il perno intorno a cui ruota tutta questa cruciale vicenda è la visione organica del cosmo concepito come un insieme unitario, tenuto in piedi dalla sapiente connessione delle sue parti anche più microscopiche e trascurabili, legate dalle infinite catene del loro reciproco e ordinato sostenersi a vicenda. Era un mondo pieno di vita e di dinamismo, trascinato in un perenne movimento dalla inarrestabile energia affettiva che si diffondeva, digradando dai cerchi più esterni e via via indebolendosi fino alle sfere più interne e più basse dell’universo, a partire dal fuoco divino che avvolgeva la perfetta «rotondità» della massa fisica del reale, con al centro la Terra e la porzione immediatamente circostante del mondo sublunare, animato dal continuo comporsi, evolvere e decadere dei quattro elementi primordiali di cui era costituita la stoffa di ogni forma di esistenza mutevole: la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco.



Lewis esalta la compattezza armoniosa, l’intima piacevolezza e l’ingegnosa simmetria gradevole  della visione classico-aristotelica dell’universo, poi integrata e ulteriormente elaborata alla luce del creazionismo del pensiero religioso cristiano. D’altro canto ne documenta la vischiosa forza di resistenza sul filo della lunga durata, che le ha garantito un ostinato, granitico predominio, solo faticosamente sbriciolato dall’avanzata della scienza antidogmatica del Cinque-Seicento, progressivamente egemonizzata dal modello matematico-sperimentale e dalla misurazione analitica dei fenomeni naturali osservabili. La presunzione di aderenza alla struttura ontologica delle cose rivendicata dalla vecchia immagine “chiusa” del mondo, filtrata da una conoscenza ancora rudimentale delle leggi di funzionamento del cosmo, si coniugava, allora, con il fascino persuasivo della percezione estetica. A suo favore, militavano le ragioni della bellezza e della gloria. La forma in cui si esprimeva era lo spettacolo di una mirabile architettura vivente, che non chiedeva solo l’assenso di una intelligenza filosofica cerebrale, ma piegava a sé anche gli affetti, nello slancio di una adesione plasticamente emotiva, capace di aprirsi alla contemplazione devota e allo stupore.



 

 

Ritrovarne l’eco vibrante nel best seller del più maturo Rinascimento, in un’Italia ancora al centro della “repubblica internazionale” delle lettere e della cultura, è di per sé una spia di trasparente eloquenza: «Il ciel rotondo, ornato di tanti divini lumi, e nel centro la Terra circundata dagli elementi e dal suo peso istesso sostenuta; il Sole, che girando illumina il tutto e nel verno s’accosta al più basso segno […]; la Luna, che da quello piglia la sua luce […]; e l’altre cinque stelle [i pianeti], che diversamente fan quel medesimo corso. Queste cose tra sé han tanta forza per la connession d’un ordine composto così necessariamente, che mutandole per un punto, non poriano star insieme e ruinarebbe il mondo; hanno ancora tanta bellezza e grazia, che non posson gl’ingegni umani imaginar cosa più bella» (Baldassarre Castiglione, Il cortigiano, libro IV, cap. 58).

Procedendo nella scia di Lewis, dobbiamo riconoscere che l’impianto geocentrico del cosmo tradizionale, simile a un’«opera d’arte» divinamente ispirata, restò pienamente vitale fino all’età che vide la prima radicale messa in discussione dei suoi presupposti, preludio della svolta che condusse a stabilire le basi di una nuova immagine del mondo, capovolta rispetto a quella destinata, alla fine, ad essere, appunto, «scartata». Ma la vittoria della nuova visione realistica del mondo è stata tutt’altro che un trionfo sfolgorante. L’alternativa tra i due modelli è rimasta a lungo un’alternativa aperta, dall’esito incerto e tutt’altro che scontato. Da una parte stava la forza persistente di contagio della vecchia sintesi teologico-astronomica, da cui l’uomo moderno faticava a staccarsi del tutto. Lo lascia intravedere un testimone d’eccellenza come Pascal, quando sporgendosi al di là della luminosità calorosa immaginata dagli antichi, pervasa dalla sinfonia musicale del movimento delle sfere celesti, si trova costretto a confessare: «il silenzio eterno degli spazi infiniti – il buio raggelante del rivoluzionario cosmo post-copernicano, potremmo aggiungere a modo di postilla – mi fa venire i brividi». Sul lato opposto si faceva sentire la superiorità di una più fredda capacità di descrizione delle strutture del mondo circoscrivibile dallo sguardo dell’uomo di scienza, che cominciava ad atteggiarsi come l’anatomista sul tavolo di una realtà da scomporre e da sezionare, prima di poterla ricomprendere nella pienezza della sua sferica perfezione, celebrata dal simbolismo adorante di una metafisica sacramentale, abitata dal senso dell’incombenza del divino.

 

L’immagine arcaica del mondo restava più affascinante. Ma conteneva in sé un non lieve inconveniente. Ora lo sappiamo bene: «non era vera». Finché, invece, la cultura “alta”, cominciando dalle università e dalle accademie, non prese ad adattarsi ai dati imperiosi accumulati dall’osservazione empirica dei fenomeni celesti, rifiutando la comoda centralità del pianeta terrestre e la vecchia idea, ormai decaduta, della rotazione concentrica delle sfere, il linguaggio universale dell’uomo comune così come l’immaginazione artistica in cui esso si proiettava continuarono a subire la suggestione dell’antica rappresentazione dell’universo creato, pur criticata e su tanti fronti screditata dagli anticipatori delle scienze esatte della modernità. La rivoluzione della nuova scienza astronomica non esplose con la forza devastante di un ciclone abbattutosi furioso sul dominio sclerotizzato degli schemi del passato. Maturò, nei loro profili filosofico-teologici, come ripensamento e sviluppo originale che di questi schemi corresse limiti e lacune resi sempre più vistosi, entrando in dialettica con la carica ancora pienamente operante del fantastico sistema di pensiero classico-medievale, riuscendo a logorarne solo con estenuante lentezza le posizioni consolidate, dall’alto penetrando a fatica, non senza inerzie, autocensure e sorde battaglie polemiche, verso il basso di un edificio restio a lasciarsi plasmare abbandonando i binari rassicuranti della consuetudine.

I libri e le dottrine la smentivano a forza di cifre, usando le lenti di un cannocchiale che non poteva più essere quello del discorso aristotelico. Ma il poeta moderno, come Marino in pieno Seicento, aveva un cuore che continuava a battere in sintonia, piuttosto, con la musica celestiale cantata dalla tradizione giunta fino a lui come lascito prezioso. Non era facile rinunciare all’idea dell’uomo al centro del mondo, sovrastato dalle danze armoniose delle Intelligenze superiori e dai cori multiformi delle gerarchie angeliche, vere e tangibili presenze a presidio dell’universo raccolto nelle braccia di Dio.