L’intervento di Roberto Esposito su La Repubblica dal titolo «Filosofia prêt-à-porter» riporta nuovamente l’attenzione su una situazione bizzarra nella quale si trova oggi gran parte del pensiero filosofico contemporaneo: quella di una sagra all’interno della quale ogni interlocutore cerca di ergersi, come un novello don Chisciotte, a difensore del suo “mulino” di idee senza che si tenga in conto alcuno quale sia la loro origine filosofica e il contesto al quale esse si riferiscono. È ciò che si vede, e in questo ha ragione Esposito, in tanti festival di filosofia, caffè socratici e manifestazioni affini che propongono un discorso filosofico senza più – direi, forse in maniera tranchant – l’onere della prova.
Certo, una filosofia così a buon mercato, che non rende più ragione del suo essere e del suo statuto disciplinare, sempre meno avrà da dire alle scienze e alle questioni antropologiche che pure chiedono di lei e del suo giudizio. E tuttavia, a ben vedere, un tale panorama non può che essere rintracciato nella evoluzione storica che il pensiero filosofico ha assunto a partire con la modernità e con la sua presunta pretesa di conoscere l’uomo unicamente attraverso il metodo della scienza naturale, congetturando la possibile scoperta di leggi che avrebbero determinato l’essere e il comportamento dell’uomo stesso.
Era questo il sogno di gran parte del pensiero positivistico e materialistico che sembrava essersi concluso con la caduta del muro di Berlino e la fine delle ideologie. Riecheggiano, a tal proposito, le parole di Romano Guardini nel suo La fine dell’epoca moderna, quando affermava che «L’uomo quale è concepito dai tempi moderni non esiste. I rinnovati tentativi di richiuderlo in categorie alle quali non appartiene: meccaniche, biologiche, psicologiche, sociologiche, sono tutte variazioni della volontà fondamentale di fare di lui un essere che sia “natura” e diciamo pure natura spirituale. E non si vede ciò che egli è anzitutto ed in modo assoluto: persona finita, che come tale esiste, anche quando non lo voglia, anche quando rinneghi la propria natura. […] Persona che ha la stupenda e terribile libertà di conservare o di distruggere il mondo, e persino di affermare e di realizzare se stessa o di abbandonarsi e perdersi”. (p. 80).
Guardini sembra tracciare con chiarezza quale possa essere la via per uno sviluppo differente della posizione filosofico-politica attuale: l’affermazione della persona in quanto dotata di quella libertà che lo fa “voler-essere” anche quando vorrebbe rinnegare la sua natura. Di qui il valore inestimabile della “natura” umana: un bene che neanche l’uomo stesso può manipolare pienamente e da cui non ci si stancherà mai di ripartire.
Ma oggi, si potrebbe dire, non vi è più il pericolo di un positivismo radicale, quanto piuttosto di un vuoto delle ideologie a cui solo può rispondere lo statuto epistemologico della filosofia analitica che Esposito sintetizza come la «modalità di fondo di tipo logico deduttivo, astratta e lontana della realtà della vita», a differenza della filosofia come “pratica” sempre più artificiale e superficiale.
E tuttavia, la possibile soluzione prospettata (una delle tante certo, senza alcun accento di assolutizzazione, ma comunque l’unica proposta) da Roberto Esposito non credo possa essere tanto convincente, quanto appare nella sua suggestività. Contrapporre – così come proponeva Michel Foucault – l’analisi della struttura epistemologica propria della filosofia analitica allo studio delle forme “aleturgiche” (produttrici di verità) significa infatti, ultimamente, riproporre un dualismo filosofico astratto e artificiale che non ha altro effetto se non quello di acutizzare la separazione tra ambiti riproponendo steccati e confini tra analitici e continentali, di cui il pensiero filosofico oggi non ha bisogno, pena la sua irreversibile estinzione. Quello di Foucault, tra l’altro, non è molto dissimile dal compito che Richard Rorty assegnava al liberale ironico: «creare il gusto in base al quale si verrà giudicati», aspirando a compendiare la propria vita in un linguaggio personale la cui perfezione si raggiunge nella certezza che di tutti i vocabolari decisivi, almeno l’ultimo possa essere totalmente creato da se stessi. Rorty non cerca di negare il valore intrinseco della filosofia, poiché anzi è proprio essa che ci porta a comprendere l’inutilità delle domande originarie.
Di qui il lavoro di potenza ricostruttrice, «potenza capace di trasformare la conoscenza in forma di vita», come spiega Esposito nel suo articolo, tenendo alla larga quella corrispondenza della verità alla realtà dal sapore troppo scolastico. Eppure è proprio questa decisa messa in disparte di una tale corrispondenza a insospettire: chi infatti decide quali siano le forme di vita meritevoli di essere trasformate e accettate, chi decide ciò che possiamo consentire da ciò che dobbiamo respingere, in una parola, chi decide quale debba essere la “nostra” dimensione politica?
Noi studiosi di filosofia non abbiamo che una risposta: la realtà nella sua totalità e particolarità, nella sua unicità e varietà, vale a dire, la realtà nella sua verità. È questa realtà che ci interessa e che ci spinge, ogniqualvolta la interroghiamo, a non fermarci, a non concludere, a non giungere mai a una facile e comoda perfezione capace sola di se stessa, poiché le verità assolute sono quelle che interessano meno, avendo un quoziente povero di conoscenza. La realtà, invece, a ben guardarla, non è mai totalmente rinchiudibile in facili teoremi o definizioni; c’è sempre qualcosa che sfugge, anche al più educato nichilista borghese o allo scienziato positivista. È quello che alcuni filosofi contemporanei hanno chiamato l’apertura della realtà, la sua fondamentalità. Di una cosa, però, possiamo essere certi: qualunque sia l’incommensurabilità di questa apertura, l’uomo non potrà fare a meno di essa, non potrà fare a meno di percorrere il cammino di questa ricerca di cui non conosce la meta, né conosce a priori se ciò a cui giungerà potrà mai soddisfarlo, ma sa con certezza che se potrà trasformare tale necessità in una virtù, la stessa necessità di verità si muterà in volontà di verità.
È proprio questa continua ricerca, certa del suo compimento, che rende oggi il lavoro filosofico, da una parte, ancora utile e interessante per chi lo professa e, dall’altra, sempre nuovo e inesauribile, come lo sono le domande ultime di ogni uomo.