L’estate è la stagione che più di ogni altra avvicina l’uomo alla natura. Le condizioni atmosferiche incoraggianti, i periodi di ferie e le giornate lunghe ci offrono un’ottima occasione per riprendere confidenza con il mondo intorno a noi. Tanto i viaggi più bizzarri quanto il vivere quotidiano possono aprirci uno spiraglio sulla bellezza della natura, ma prima dobbiamo rieducare i nostri sensi alla meraviglia. Dobbiamo guarirli da quella forma di “daltonismo” che nasce dalla nostra indifferenza per tutto ciò che riteniamo di conoscere a fondo e che ci porta a percepire gli innumerevoli splendori della natura come un’unica massa uniforme. È difficile forse, ma per risvegliare le nostre curiosità, per ridestare in noi la voglia di lasciarci stupire, possiamo contare anche sull’aiuto dell’arte.
Non serve chiamare in causa il lungo e affascinante dibattito sul suo rapporto con la natura. Ai nostri fini è sufficiente pensare a quegli artisti che, innamorati del creato, si sono impegnati a celebrarlo attraverso le proprie opere, avvertendo talvolta anche un senso di inadeguatezza, come dichiara, con un’umiltà davvero commovente, il poeta americano Joyce Kilmer: «Penso che non vedrò mai / una poesia bella come un albero (…) Le poesie sono fatte dagli sciocchi come me, / ma solo Dio può fare un albero». Questi artisti infatti possono indirizzare i nostri occhi sia sui frammenti di natura più umili e apparentemente marginali, che sulle bellezze più sorprendenti e ineffabili.
Con la sua Grande zolla, ad esempio, Albrecht Dürer sottopone alla nostra attenzione un ciuffo d’erba del tutto ordinario, come ne abbiamo visti a migliaia. Eppure, separato da quanto gli sta intorno, impreziosito dall’ingrandimento, il ciuffo ci appare come qualcosa di straordinario, un piccolo grande capolavoro nascosto nella vita di ogni giorno. Dürer porta i nostri occhi su una normalissima porzione di prato, che dal vivo probabilmente non catturerebbe la nostra attenzione neppure se, inciampando, finissimo col trovarcela a pochi centimetri dal naso. Mettendo in risalto i fili d’erba e le foglioline, ci costringe a considerare quanta bellezza sia racchiusa in un brandello di natura così apparentemente banale e, di conseguenza, a quanta ne sia sparsa nel resto dell’universo.
Lo stesso fanno, sul fronte musicale, le composizioni con cui Olivier Messiaen, trascrivendo i canti degli uccelli, ci invita all’ascolto dei suoni della natura o, su quello letterario, alcuni indimenticabili passi de I fratelli Karamazov (il riferimento è alla pagine che Dostoevskij dedica alla vita dello starec Zosima). Alquanto suggestivo in questo senso, benché manchi di un lieto fine, è anche il famoso episodio de La Storia di Elsa Morante in cui un agente delle SS condotto al patibolo s’imbatte in un fiore sbocciato su un muro e, riconoscendo in esso «tutta la bellezza e la felicità dell’universo», per un istante pensa: «Se potessi tornare indietro, e fermare il tempo, sarei pronto a passare l’intera mia vita nell’adorazione di quel fiorelluccio».
Guide preziose per la contemplazione del frammento, gli artisti possono correre in nostro aiuto anche per porzioni di natura ben più vaste. Caspar David Friedrich, giusto per fare un nome, in questo campo è un vero maestro. Da buon romantico conosce le potenzialità del proprio lavoro e nel creato individua non solo un’inesauribile fonte d’ispirazione, ma anche una delle vie più brevi per conoscere Dio. Osservando le sue opere vengono in mente le parole di Wilhelm Heinrich Wackenroder, uno dei padri del Romanticismo tedesco: «Conosco due lingue meravigliose, che il Creatore diede agli uomini affinché i mortali, per quanto ciò sia loro possibile, possano raggiungere le cose celesti (…). Una di queste lingue è parlata soltanto da Dio, la seconda soltanto da pochi eletti (…). Queste lingue sono la natura e l’arte». Con la natura Friedrich dialoga senza sosta e alle aperture paesaggistiche che dipinge affida la traduzione figurativa delle sue più intime domande, che nei contenuti spesso ricordano Novalis e Kierkegaard. I suoi alberi, le sue rocce, i suoi tramonti, i suoi tratti di mare ci invitano a riflettere sul creato. Siamo parte della natura – sembra suggerirci – e in essa possiamo trovare un alleato per capire più a fondo noi stessi, un alleato che non ci abbandona in nessuna occasione e che può assisterci nell’incontro con l’infinito.
Quando si accosta alla natura, l’arte può prendere in considerazione anche quanto di essa normalmente ci angoscia. Il Cantico di frate Sole, che oltre a essere una delle più intense preghiere della storia cristiana, è una vera e propria poesia (e quindi un’opera d’arte a tutti gli effetti), ad esempio non contempla soltanto le cose che facilitano la nostra vita. Francesco accetta con letizia e umiltà tutto ciò che viene da Dio, dalla bellezza del creato all’utilità delle sue componenti, dalle più diverse situazioni atmosferiche ai momenti di dolore. E proprio le parole di accoglienza per l’«infirmitate», per la «tribulatione» e per la «morte corporale» fanno del suo Cantico uno dei più decisi, pieni e sinceri atti d’amore nei confronti del Creatore e del creato.
L’arte è dunque un ottimo strumento per la riscoperta di quanto è intorno a noi. Destreggiandosi con le parole o con le immagini, con i suoni o con i gesti, riesce a forzare il muro della nostra indifferenza e a scuotere le emozioni. Le opere che si rivolgono alla natura con spirito risoluto, cioè senza cadere in inutili patetismi o in ingenue tentazioni panteistiche, possono davvero riavvicinare ad essa i nostri sensi. Che poi li portino alla scoperta di un frammento minuscolo o all’incontro con uno scenario sconfinato non è particolarmente importante. Ciò che conta è che sappiano insegnarci a considerare ogni cosa con interesse, stupore e umiltà, perché spesso l’esperienza della bellezza è molto più vicina a noi di quanto siamo abituati a pensare.