In alcuni saggi, recentemente tradotti in Italia e raccolti sotto il titolo Questa Europa è in crisi, Juergen Habermas ha delineato un interessante quadro di quanto sta accadendo oggi tra i Paesi dell’Unione europea. A seguito della grave crisi finanziaria mondiale, infatti, si è determinato un meccanismo per il quale i capi di governo dei singoli Stati sono spinti a formare, nei vari parlamenti nazionali, delle maggioranze che consentano loro di ottemperare a quanto già concordato con i loro colleghi a Bruxelles, in sede di Consiglio europeo, tutto ciò al fine di accedere ad aiuti economici da parte dell’Unione. Il Consiglio europeo, richiedendo come condizione di accesso agli aiuti l’adozione di determinate politiche in tutte quelle materie (quali la previdenza, l’educazione, il mercato del lavoro, la sanità) che possono avere influenza sulle capacità concorrenziali delle singole economie nazionali, finisce per imporsi su questioni di competenza dei parlamenti nazionali che, di fatto, vengono esautorati, dovendo operare sotto la sanzione (non giuridica) della negazione degli aiuti economici. Ad avviso di Habermas questo costituisce una “specie di federalismo esecutivo di un Consiglio europeo auto-investitosi di autorità”, tale da rappresentare un modello di esercizio del potere diverso da quello democratico, un modello cioè di “esercizio post-democratico del potere” a livello transnazionale.



Forse le cose sono addirittura peggiori rispetto a quanto così rappresentato, perché le stesse decisioni del Consiglio europeo appaiono in qualche modo connesse a quelle di altre istituzioni (la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale) o addirittura di enti, o di Paesi estranei all’Unione europea, con un forte potere finanziario e con imponenti interessi da salvaguardare nel mercato globale dell’economia, così da rappresentare un esercizio del potere ancor più “postdemocratico” di quanto già non sembri. Inoltre, tale forma di esautorazione dei parlamenti nazionali finisce per operare solo a discapito degli Stati con economie deboli, per i quali gli aiuti sono indispensabili, contribuendo così a determinare una divisione, certamente estranea alle previsioni dei Trattati dell’Unione, tra Paesi bisognosi (a economia debole) e Paesi egemoni (a economia forte), con subordinazione dei primi ai secondi.



A fronte di quello che è stato efficacemente chiamato, dallo stesso Habermas, uno “svuotamento intergovernativo” (e forse anche interfinanziario) della democrazia, hanno ripreso fiato due opposti schieramenti: da un lato, gli euro-scettici sostenitori degli “Stati nazionali” e, dall’altro, gli euro-entusiasti sostenitori della tesi federalista europea, quella della nuova Costituzione degli “Stati Uniti d’Europa”. Entrambe le vie sono state correttamente giudicate fallimentari.

La prima per ragioni più semplici e immediate: infatti i mercati finanziari, e in generale tutti i sistemi funzionali oltrepassanti i confini nazionali, creano problemi e pongono questioni che i singoli Stati, con la loro limitata competenza territoriale, non possono più dominare. A che servirebbe, infatti, una regolamentazione dei mercati finanziari in un singolo Stato se il mercato da disciplinare per ottenere effetti positivi oltrepassa i confini nazionali? E’ evidente, quindi, che l’uscita dall’Europa e il ritorno al “bel tempo antico” dello statalismo rappresentano poco più che una illusoria mistificazione.



La seconda via, quella federale europea, è altrettanto illusoria, anche se per ragioni più complesse. A differenza di quanto accade in uno Stato federale, fra i cittadini dell’Unione non esiste ancora quella “solidarietà [civica]… necessaria per il formarsi di una volontà politica comune” che possa legittimare il potere di decisione ultima di uno Stato federale, cioè quello di modificare autonomamente le proprie competenze a scapito degli Stati membri (la cosiddetta “Kompetenz-Kompetenz”, competenza sulla competenza); d’altro canto, all’Unione sono stati bensì trasferiti diritti di sovranità statale (cioè, approssimando, le decisioni in taluni campi), ma gli Stati membri hanno conservato il monopolio del potere (cioè, semplificando, l’esecuzione tramite i propri apparati amministrativi). Conseguentemente, una trasformazione dell’Unione europea in senso federalista sarebbe priva di base sostanziale (la solidarietà civica) e troppo costosa e complessa (in relazione all’apparato amministrativo che dovrebbe essere costruito) per essere ritenuta concretamente attuabile. 

L’unica via d’uscita sarebbe, quindi, rappresentata da una nuova “democrazia transnazionale” che dovrebbe sorgere dall’Europa post Trattato di Lisbona, in cui la crescente fiducia reciproca dei popoli europei sviluppi una forma di solidarietà civica tra i cittadini dell’Unione che porti a quella che, sempre Habermas, chiama “democratica ratificazione del potere politico”, cioè che porti i cittadini dei vari Stati ad accettare il diritto dell’Unione perché sentito come “giusto”, in quanto posto democraticamente, e non perché subito, in quanto assistito da sanzioni.

In realtà, se è pur vero che i timori prodotti dalla situazione economica rendono i problemi dell’Europa più fortemente presenti alla coscienza delle popolazioni, questo non sembra affatto aver indirizzato verso una accentuata solidarietà, quanto piuttosto verso una crescente ostilità e diffidenza tra i popoli medesimi, che contrappone i popoli dei Paesi egemoni ai popoli dei Paesi bisognosi di aiuti e, seppure in minor misura, pone in conflitto questi ultimi tra di loro, in quanto diretti concorrenti nel veder esaudite le loro richieste di aiuti in competizione le une con le altre. La direzione che i fatti sembrano prendere non è, quindi, quella auspicata della “democrazia transnazionale”, ma quella dell’“esercizio post-democratico del potere”.

Esiste però una “terza via” che può guidare verso la formazione di una solidarietà europea, quella della implementazione diretta di diritti fondamentali europei per via giurisdizionale. Per capirlo occorre osservare come il fatto, apparentemente tecnico e teorico, dell’attribuzione del monopolio interpretativo del diritto dell’Unione ad un unico organo giurisdizionale sovranazionale, la Corte di Giustizia di Lussemburgo, ha già determinato, in primo luogo, l’affermarsi della tesi del “primato” del diritto comunitario su quello dei singoli Stati e, in secondo luogo, ha attivato nelle giurisdizioni dei vari Paesi e, in particolare, in quella italiana, l’obbligo di interpretare il diritto interno in modo “conforme” a quello dell’Unione europea ovvero di non applicare il diritto interno insanabilmente in contrasto con quello.

Pertanto, l’obiettivo che appare ancora lontano (e, al momento, quasi utopico) di costituire, tra i popoli dei vari Stati, la coscienza comune di essere ad un tempo cittadini dell’Unione oltre che cittadini del proprio Stato di appartenenza, è invece assai più vicino tra i giudici appartenenti alle giurisdizioni dei vari Stati che, oltre ad essere giudici del singolo Stato sono e si sentono anche giudici dell’Unione europea, pur in un percorso non facile, fatto ancora di alternanza di dialoghi e conflitti aperti tra le Corti (si pensi alle tensioni con la Corte costituzionale tedesca o con la stessa Corte costituzionale italiana). Sotto il vincolo del primato del diritto comunitario così come interpretato dalla Corte di giustizia, le giurisdizioni dei singoli Stati tendono, perciò, a modellare il proprio diritto interno in modo da evitare qualsiasi conflitto con il diritto dell’Unione, ciò anche contrastando le tendenze dei singoli Parlamenti nazionali (si pensi, ad esempio in Italia, all’avvenuta disapplicazione delle norme incriminatrici in materia di immigrazione clandestina).  Alla mancanza attuale di sufficiente solidarietà civica tra i popoli degli Stati membri dell’Unione, fa dunque da contrappeso una già avviata “solidarietà interpretativa” dei giudici, le cui conseguenze attendono ancora una compiuta valutazione, in termini di vantaggi che possono apportare e di effetti negativi che possono determinare.

Questa componente giurisdizionale della struttura dell’Unione, infatti, presenta anch’essa luci ed ombre, ma non può essere trascurata. Infatti, da un lato, la giurisdizione rappresenta un’ulteriore aspetto della deriva post-democratica dell’esercizio del potere, almeno nella misura in cui essa sia considerata costitutivamente a-democratica, se non addirittura anti-maggioritaria, in quanto posta per garantire da eventuali abusi del potere delle transeunti maggioranze parlamentari; dall’altro, tale componente giurisdizionale può anche assurgere a garanzia da quelle forme post-democratiche di esercizio del potere rappresentate dal “federalismo esecutivo” di cui sembra essersi fatto promotore il Consiglio europeo (si pensi all’attesa per il pronunciamento della Corte costituzionale tedesca proprio in questa materia).

Peraltro, proprio sotto la veste di questa funzione di garanzia ben possono nascondersi e trovare spazio anche quei rigurgiti di statalismo nazionale che nulla hanno a che vedere con le preoccupazioni per la deriva post-democratica dell’Unione europea.

Essenziale per comprendere le potenzialità presenti e future della componente giurisdizionale in questa Europa in crisi è, però, la questione dell’“interpretazione”, poiché è attraverso l’interpretazione delle norme comunitarie da parte della Corte di Giustizia e delle sentenze di questa, e delle disposizioni interne da parte dei giudici dei singoli Stati, che operano le giurisdizioni ed è, pertanto, attraverso lo strumento interpretativo che esse esercitano il loro potere.

Estremizzando e semplificando il problema è questo: se la concezione di fondo dell’interpretazione è quella “cognitiva”, per cui a ciascuna disposizione normativa sono attribuibili solo alcuni significati, che preesistono all’attività di interpretazione e che il giudice deve solo scoprire, allora il ruolo del giudice sarà inevitabilmente più ristretto, dovendosi limitare a riconoscere tali significati, che sono quelli corrispondenti alle decisioni assunte da chi ha emanato quella disposizione, la sua discrezionalità limitandosi solo a scegliere nel caso ve ne sia più di uno. Al contrario, se la concezione di fondo dell’interpretazione è quella “scettica”, per la quale non esiste alcun significato attribuibile alla disposizione normativa prima dell’avvio dell’operazione di interpretazione e il significato è solo il prodotto, in certa misura libero, dell’applicazione della disposizione ad un caso concreto, allora il ruolo del giudice e la sua attività interpretativa assumono un ruolo più schiettamente “decisionale” o “creativo”.

Vi sono poi disposizioni, come quelle in materia di diritti fondamentali, per le quali, più che per altre, sembrano prevalere, come più adeguate, le concezioni interpretative ad orientamento “scettico”, che attribuiscono maggiori poteri “creativi” alla giurisdizione. Se così ci si dovesse orientare, la “comunitarizzazione” della Carta di Nizza avvenuta con il Trattato di Lisbona e l’elenco di diritti fondamentali in essa contenuti potrebbero contribuire alla formazione, seppure nel solo ambito delle materie di rilevanza comunitaria, di un sistema di garanzie che, sotto l’azione unificatrice della Corte di Giustizia e attraverso le operazioni di interpretazione conforme e disapplicazione dei giudici dei singoli Stati, porterebbe ad una prospettiva di giustizia comune da parte dei cittadini, non in quanto cittadini del singolo Stato, ma in quanto cittadini dell’Unione, così contribuendo a formare quella consapevolezza di appartenenza comune (all’Unione europea, grazie alla quale essi possono rivendicare diritti “giustiziabili”) che costituisce il punto di partenza della solidarietà civica necessaria alla nuova democrazia transnazionale. Tale prospettiva di giustizia per i cittadini varrebbe poi nei confronti dei singoli Stati non solo in quanto tali, ma anche in quanto esautorati delle proprie competenze e costretti ad una “normazione imposta” da quel federalismo esecutivo che, affermatosi attraverso il Consiglio europeo, verrebbe poi limitato nello stesso ambito europeo da cui proviene, attraverso l’opera della giurisdizione (della Corte di giustizia in cooperazione con i giudici comuni dei singoli Stati), evitando, quindi, arroccamenti nazionalistici o parzialità di visione dei problemi che eccedono gli interessi del singolo Stato.

Il pendant di tali vantaggi sarebbe peraltro rappresentato dalla sovraesposizione di organi, come quelli giurisdizionali, che attraverso operazioni interpretative assumerebbero in realtà decisioni politiche, per le quali risulterebbe problematica l’individuazione di adeguate forme di responsabilità. Inoltre, occorrerebbe forse distinguere tra giurisdizione e giurisdizione (ad esempio tra Corte costituzionale e giudice comune, oppure tra Corte di Giustizia e Corte costituzionale o giudice comune) in ordine alla capacità di assumere tali decisioni, su tale capacità influendo il modo in cui l’organo giurisdizionale è stato formato e costituito. Corollario di tale distinzione sulle “capacità” delle singole giurisdizioni è poi il riflesso sulla natura più o meno accentrata, o più o meno diffusa del controllo giurisdizionale: l’accentramento del controllo, assicura certezza e prevedibilità di decisioni giuridiche; la diffusione del controllo presso qualsiasi giudice apre, invece, ai rischi della “babele giuridica”.

Non si vuole sostenere, pertanto, che la “via giurisdizionale” all’Europa rappresenti un vantaggio o sia preferibile rispetto ad altre soluzioni, ma si intende solo affermare che la componente giurisdizionale dei processi di assestamento in questa Europa in crisi è un elemento che svolge e svolgerà un ruolo cruciale, che deve necessariamente essere preso in seria considerazione, proprio per le luci ma anche per le ombre che da questo possono provenire. D’altro canto, per capire quale sarà questo ruolo e come tale “via giurisdizionale” può operare e in parte ha già operato diventa centrale la “questione dell’interpretazione”.  

Come si può vedere, il dibattito sulla concezione di fondo dell’interpretazione in generale, e dell’interpretazione giuridica in particolare, rappresenta una sfida culturale che non solo è gravida di conseguenze pratiche di enorme portata, ma la cui conoscenza è anche decisiva per chiunque voglia assumere una posizione consapevolmente avvertita sulle dinamiche europee che, in questo periodo, stanno occupando l’attualità e preoccupando le coscienze dei singoli: scegliere tra l’una o l’altra concezione interpretativa, ovvero l’affermazione di questa o di quella, sarà centrale per gli sviluppi futuri della situazione.

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