Una singolarità della poesia è che permette di parlare infinite volte della stessa cosa, senza che questa sia mai del tutto la stessa. Se ci pensiamo, sono innurevoli le poesie o i frammenti di poesia che parlano dell’alba, o delle foglie d’autunno che cadono, o del vento, o del rumore del mare, a tutte le latitudini e in tutte le epoche. È lo stesso fenomeno che, a un livello meno sorvegliato, viviamo nella comunicazione ordinaria, nelle migliaia di parole che quotidianamente ci rivolgiamo l’un l’altro nel nostro agire. Parole spesso ingiudicate, usate in un significato ricevuto e bloccato, e a cui raramente chiediamo il loro nesso reale con ciò che stiamo vivendo e tentando di dirci.



È intorno a questo nesso, ai legami tra vita e parola e tra parola detta e parola scritta, che si svolge l’intera opera di Rodolfo Quadrelli, sommamente condensata nell’ormai introvabile Il linguaggio della poesia (1969). Nato a Milano nel 1939 e andato via da questo mondo quarantacinque anni più tardi, Quadrelli spende i suoi brevi giorni insegnando nei licei milanesi e affiancando a tale impegno un’attività di poeta e pubblicista capace di toccare tutti i nodi più caldi della società italiana ed europea. Il linguaggio della poesia è il suo primo libro e insieme al successivo Filosofia delle parole e delle cose (1971) resta centrale nella sua produzione, per la chiarezza dello sguardo e per la capacità di dettare una linea di pensiero e un metodo di affronto dei temi che meriterebbero di fare scuola più di quanto sia loro accaduto. 



Come tutti i metodi, il metodo di Quadrelli non è neutro e non nasce nel deserto, ma risponde a precise preoccupazioni, rispondendo alle quali si definisce e affina. Ed è proprio per la singolarità delle sue preoccupazioni che la critica quadrelliana è interessante anche per i non addetti ai lavori. Da allievo cordiale di T.S. Eliot e di Pound, infatti, Quadrelli ha strenuamente a cuore la precisione del linguaggio. E se d’istinto quello della precisione del linguaggio può sembrarci esattamente un problema da addetti ai lavori, è facile accorgerci di come sia vero il contrario. Ci basti pensare a quante volte le nostre discussioni si isteriliscono in una dialettica muro contro muro perché – nel legittimo desiderio di affermare la nostra concezione, di spiegarla all’altro – ci accade di deviare, di staccarci sempre più dall’oggetto finché le parole, dal difendere o esprimere una posizione, finiscono col difendere o esprimere se stesse.



È in casi come questi che intuiamo come il problema del loro uso sia tutto fuorché un problema letterario; di come sia anzi un problema fondativo dell’uomo e della sua capacità di nesso con l’essere. Come sottolinea Quadrelli, si tratta di una battaglia cui è convocato ogni uomo in ogni campo e la cui posta altissima è la preservazione del nesso tra parola ed esperienza. È la scissione tra questi due poli, infatti, che apre la strada al nominalismo e all’ideologia, deprivando l’esperienza di uno strumento per giudicarla: “La battaglia culturale (e non solo al livello della cultura scritta) è ormai veramente quella degli scrittori contro gli ideologi, coloro che usano le parole senza rispettarne il contesto: gli accademici, che trasformano una disciplina in materia; i giornalisti, che avviliscono l’essenziale confondendolo col futile; i filosofi che pretendono, nel loro linguaggio, compendiare ogni linguaggio possibile” (Il linguaggio della poesia, p. 10).

Ma se la battaglia è di tutti, “un solo linguaggio si salva: il linguaggio della poesia” (Il linguaggio della poesia, p. 21). E questa sua facoltà redentiva lo rende interessante per il linguaggio comune. Come infatti il costruttore di cattedrali ricorda all’uomo il suo desiderio di edificare, di porre nella storia e nell’eternità la propria impronta, così il poeta restituisce agli uomini la facoltà di parola. Ma non per il mezzo di una sua ineffabile creatività – come intende una lettura viziosamente romantica della poesia che ancora oggi non si riesce a estirpare – quanto con l’esercizio della propria arte. Scrivendo, il poeta non crea, ma svela; non innova, ma riscopre, ponendo al servizio della lingua comune la sua opera: “Il poeta non ha altro compito se non quello di rappresentare la tradizione per il proprio tempo, e per quanto è possibile. Ci sono condizioni del linguaggio per le quali è più difficile fare poesia di quanto non lo sia in altre; e l’“individualità creatrice” non vi può proprio nulla. Si capirà dunque che l’azione sul linguaggio da parte del poeta sarà quella di redimere il linguaggio, essendo inevitabile che il tempo (cioè l’uso) ad ogni generazione lo corrompa. Non si tratta di rinnovare meramente il linguaggio, ma di ricondurlo ad una rappresentazione perduta” (Il linguaggio della poesia, p.23).

Il poeta, ci dice Quadrelli, non dispone ma risponde; è responsabile cioè non delle parole che usa maverso le parole che usa. Il suo compito è perciò possibile soltanto se egli interroga le parole e le cose, se nel momento in cui tratta la sua materia, non la usa come già significata ma le chiede di risvelare il proprio senso. Se, insomma, l’atto di scrivere si fa preghiera alle parole perché si svelino nuove e vive, perché svelino “la via, ora celata, ora aperta, che conduce alla giustizia del riconoscimento; una via che si chiama una via che si chiama destino per ognuno e tradizione per tutti” (Il linguaggio della poesia, p. 10).

E se è evidente che non si possono pregare le parole perché non sono altro che suoni e segni, allora l’unico modo per farlo è pregare le loro incarnazioni, quegli istanti e quei luoghi in cui il loro nesso con l’esperienza si fa singolarmente evidente. Pregare le parole significa perciò pregare le opere passate, riconquistare le rappresentazioni perdute del linguaggio che in esse ancora vivono: in questo senso, più che a scrivere poesia contemporanea, il lavoro del poeta sarà rivolto a rendere contemporanea la poesia passata, ad assumere cioè la tradizione in cui opera per tramandarla oltre sé. Perché ciò possa accadere, egli ha da accettare di lasciarsi superare, di consegnare al futuro non sé o il proprio nome, ma i propri significati: il solo mezzo per ogni uomo di “espiare il tempo“, il solo per il cui mezzo “i tre tempi non rappresentano solo se stessi, ma l’eterno” rivelando “il passaggio dell’uomo sulla terra […] un transito a un fine misterioso ma certo” (Il linguaggio della poesia, p. 25).