Convegno di filosofia estetica in Polonia. Per i non addetti, si tratta di una riunione dove si discute su che cosa sia il bello, quali siano i criteri per riconoscerlo, quali siano le sue condizioni e le sue applicazioni. Il che sarebbe, appunto, molto bello se non fosse che si svolge in una sala di cemento di una periferia terrificante. Ma forse l’idea era quella di capire le cose per contrasto e, in ogni caso, non è qui che sta il dilemma.
Il dilemma, invece, nasce dall’autore al centro del convegno, Richard Shusterman, che ha proposto una filosofia del corpo non materialista, una specie di terapia filosofica per avere una vita bella e intelligente (Estetica pragmatista, tradotto in quasi tutte le lingue, italiano incluso). È un’estetica peraltro aperta e democratica, che fa capire che anche i gusti più comuni e la vita di chiunque possono raggiungere e offrire una soddisfazione e una pienezza non più riservata a poche opere esposte in qualche freddo museo.
Tralasciando la teoria, che ha molti meriti e varrebbe la pena discutere, la cosa curiosa è che egli stesso si propone come icona della propria teoria. E qui la teoria mostra alcune caratteristiche occulte, che di per sé non emergono con la stessa chiarezza dai libri. L’uomo del futuro che Shusterman incarna avrà cura del proprio corpo come parte di un generale benessere corporeo-spirituale (molto vicino alle filosofie orientali) che dà di per sé una grande soddisfazione e per il quale varrebbe la pena vivere. È un uomo che si trova a suo agio in ogni parte del mondo, parlando con garbo e conoscenza – e in molte lingue – di ogni uso e costume che, in qualche modo, ha contribuito alla creazione del proprio benessere cultural-corporeo. L’io così ben costituito da esperienze e pensieri appropriati può diventare spettacolo a se stesso, come Shusterman stesso ha dimostrato in una mostra – esposta nel maggio scorso alla Sorbona – nella quale ha proposto tale esperimento svolto su se medesimo. Il risultato è un raffinato cittadino del mondo, capace di dialogo con ogni cultura, interessato e interessante. La democratizzazione estetica permetterebbe poi a chiunque di diventare così.
Solo che, a un certo punto, in una relazione, uno studente di PhD, americano, ateo, dice: “il fatto è che il cosmopolita estetico che Shustermann in un certo senso rappresenta sembra non essere mai del tutto dentro a quello che fa”. Ovviamente ci sarebbero tanti distinguo da fare perché Shusterman non propone un cosmopolitismo ingenuo ma un dialogo tra diverse narrative del sé. Ma il problema rimane. Uno sembra non esserci mai del tutto. La parola inglese è bellissima: wholehearted, con tutto il cuore. Così viene fuori il dilemma: metteteci di mezzo tutta la corporeità e tutta l’intelligenza che volete, ma la questione sta nella definizione dell’io.
O si considera il proprio ragionamento come indipendente giudice del mondo o si appartiene a qualcuno o a qualcosa.
Nel primo caso il problema vero è che tutto viene capito, digerito e spiegato secondo ciò che già si è, si sa e si può comprendere. Se il proprio ragionamento è illuministicamente l’ultimo giudice della realtà intera, per quanto non sia solo intellettualistico, per quanto sia ampio, alla fine dipende da se stesso, non c’è niente che sia in fondo più grande di esso. Così il cosmopolita estetico rischia di diventare ultimo erede dell’illuminismo che teoricamente rigetta: accetta tutti, capisce tutti, gode (con misura) di tutto perché tutto è parte di una costruzione che ha il centro nella propria auto-consistenza intelligente e critica. Ma sarebbe disposto a sacrificarsi per qualcuno? C’è una realtà che vale più di se stessi?
Qual è l’alternativa? L’uomo che è tutto definito dall’appartenenza, qualsiasi essa sia, capisce solo che vuole bene, che vorrebbe volere più bene e che non è capace, che se qualche volta c’è del vero piacere, esso viene per una fortuna o grazia che non è mai in mano sua, la grazia di essere voluti per niente e anche se si è niente. Ma così facendo incontra e ama tutti davvero perché, come l’eroe di Chesterton che faceva il giro del mondo per ritornare a casa, proprio quella, con quel bidone dell’immondizia là fuori, questo povero uomo cerca in tutti e in tutto il volto a cui appartiene semplicemente, senza del quale non riesce a vivere e per il quale farebbe qualsiasi sacrificio, se Dio gliene desse la forza.
Non è sentimentalismo, come affermava uno dei più grandi logici di tutti i tempi, C.S. Peirce: “Chi non sacrificasse se stesso per salvare il mondo intero, sarebbe totalmente illogico in tutte le proprie conclusioni”.