Il pensiero religioso più vivo e fecondo si riconosce nella sua umiltà. Non vuole essere originale a tutti i costi. Invece di gonfiarsi nell’autonomia presuntuosa dei suoi equilibrismi retorici, si pone devotamente alla scuola della grande tradizione da cui dovrebbe sempre fluire con la freschezza di una limpida acqua di sorgente. Così prende forma il ‘discorso’ che i veri maestri della fede consegnano ancora a noi oggi, perché nel fiume inarrestabile della tradizione che innerva il corpo della vita cristiana è radicata la loro stessa esperienza. Le parole della ragione umana non sono vuote perché possono essere riempite dalla ricchezza di una origine che rivive e si riattualizza incessantemente nel presente. Certamente è stata questa la strada perseguita dai più alti testimoni del pensiero cristiano del Novecento. Resta quanto mai esemplare, in tal senso, la vasta opera intellettuale che ci ha trasmesso in eredità Henri de Lubac: un’opera polivalente e dotata di larghissima influenza, nutrita dal dialogo con le più solide fondamenta di un patrimonio condiviso e proprio per questo arditamente proiettata in avanti, su molti fronti davvero innovatrice, in modo serio e maturo.
Prendiamo uno dei suoi scritti più apprezzati anche fuori dai circuiti della ricerca specialistica degli addetti ai lavori, che per l’erudito teologo gesuita non poteva mai andare disgiunta dal confronto con i dati di una sapienza pazientemente accumulata lungo i secoli della storia della Chiesa, da accogliere cordialmente nell’abbraccio di una fede “serena”, “inalterabile”, “perseverante”. Sono i tre aggettivi-chiave, che nella triade luminosa del loro richiamarsi a vicenda incorniciano il capitolo d’esordio di Meditazione sulla Chiesa.
L’opera apparve circa sessant’anni fa, in prima edizione nel 1953, ma conserva ancora ai nostri giorni tutta l’energia stimolante della sua felice ispirazione. Fin dalle sue prime pagine, il pioniere di una “nuova teologia cristiana” non si ritrae di fronte all’esaltante ambizione positiva che giustifica la fatica di un lavoro intellettuale come quello in cui egli volle cimentarsi senza risparmio: lo scopo ultimo era arrivare “al centro del mistero”. Anche cercando di capire più a fondo cosa è la Chiesa, nella sua natura oggettiva e nelle sue strutture portanti, l’esigenza di de Lubac è quella di “fissare lo sguardo sull’essenziale”. Le conseguenze pratiche, i risvolti etici e giuridici derivano obbligatoriamente da questa fonte primaria. Altrimenti finiscono con l’apparire sovrastrutture che imbrigliano una sostanza resa in sé inaccessibile, deformata e corrotta dal suo stesso immergersi nel cammino tortuoso di una vicenda storica che è sempre una vicenda esposta alla tirannia dei limiti e delle colpe dei suoi poveri attori umani.
La riscoperta dell’identità più autentica di ciò che è la realtà della Chiesa di Cristo era il compito a cui de Lubac desiderava contribuire. Non se l’era nemmeno inventata lui da solo una urgenza di questo genere: dalle correnti profonde di un risveglio verso cui spingevano le coscienze religiose più acute del suo tempo il teologo francese attingeva lo stimolo, il coraggio e molte delle idee per andare oltre i luoghi comuni e le pigrizie incancrenite del conformismo di chi si accontentava di gestire l’esistente, anche quando questo assumeva le vesti vellutate del clericalismo privo di vero ardore e senza attaccamento alla vitalità costitutiva dell’avvenimento cristiano nudo e crudo. De Lubac cita in proposito Guardini: “La Chiesa si è ridestata nelle nostre anime”. Dichiara di riferirsi a grandi autori come Moehler, protagonisti di una riproposizione in chiave creativa del nucleo fondamentale della più compiuta ed equilibrata ecclesiologia cristiana. Mette a frutto la rinascita del senso liturgico e dell’attaccamento alle fonti originarie dell’autocoscienza della fede, che sono innanzitutto quelle bibliche e patristiche, emerso come frutto inaspettato dalle spogliazioni e dai forzati ripensamenti della crisi settecentesca e dell’Ottocento nazionalista e borghese. D’altra parte de Lubac prende apertamente le distanze dalle tendenze conservatrici di una visione più esteriore, gerarchica e disciplinare, individualista e moralista in molti dei suoi esiti pratici di vita vissuta, a cui non era sfuggita la teologia romanocentrica del Vaticano I e che continuava a intrecciarsi, stando al suo giudizio lungimirante, con gli schematismi di un granitico tomismo, irrigidito in sistema invalicabile, spesso amante di una pretesa di egemonia abbarbicata al sogno di inglobare il mondo nelle reti di una cristianità più ancorata al passato che aperta al futuro di una fede ringiovanita nelle sue basi.
De Lubac dovette soffrire molte incomprensioni e si espose a severi provvedimenti punitivi per la franchezza della sua volontà di ritorno al primato genuino di un cristianesimo semplice, trasparente, lieto e tenacemente operoso: non ricercava il consenso a buon mercato, ma si concepiva al servizio di un grande movimento collettivo di auto-rigenerazione dell’amore a Cristo e alla sua Chiesa. Questo movimento di ripresa della percezione del senso autentico dell’identità cristiana aveva conosciuto un momento autorevole di impulso con l’enciclica Mystici corporis Christi di Pio XII, del 1943. Nella scia dell’enciclica de Lubac inscrive la sua Meditazione. E dalle tragedie dei totalitarismi, con il loro seguito di orrori infiniti dell’ultimo conflitto mondiale, il recupero, lento e difficile, di una teologia incarnata nell’humus della comunione vissuta della sequela cristiana arriva fino alle aperture del Vaticano II, al nuovo ruolo di leadership spirituale degli ultimi papi, ai fermenti carichi di forza propositiva dei movimenti comunitari laicali fioriti in parallelo con il declino e le trasformazioni delle vecchie strutture dell’organizzazione ecclesiastica tradizionale.
Vecchio e nuovo si combinano mirabilmente nel sapiente affresco di de Lubac. La Chiesa, per lui, è innanzitutto un mistero da adorare. Trae la sua origine profonda dal cuore stesso di Cristo sulla croce. È la sua Vita che si comunica: è “Cristo continuato”, come già scriveva Bossuet nel Seicento, un principio di esistenza nuova nel mondo, destinato a compiersi nelle sue dimensioni totali nel Regno dei cieli alla fine della storia umana, ma senza nessuna soluzione di continuità rispetto alle anticipazioni che si realizzano nell’ordine provvisorio del tempo che passa. Nessuna dissociazione è possibile nel tessuto coerente della realtà su cui è costruita: l’unità spirituale e “invisibile” del corpo mistico di Cristo è un tutt’uno con l’ordinamento della Chiesa come compagine istituzionale che vive e si sviluppa nel mondo. A modello di Cristo, anche in lei il divino e l’umano si compenetrano senza annullarsi a vicenda.
Ma per abbracciare il principio basilare della vita della Chiesa bisogna scendere fin nelle pieghe più segrete del suo cuore pulsante: è il mistero dell’eucarestia, dentro il mistero della Chiesa che lo ricomprende. Il rapporto è pienamente reciproco: la Chiesa fa l’eucarestia, così come la liturgia eucaristica fonda l’unità della Chiesa. L’una cosa e l’altra, indissolubilmente, sono l’esito materiale di ciò che Paolo definiva con la metafora dell’organismo: la sintesi ordinata delle parti e del tutto in connessione con il loro capo, Cristo stesso, che si identifica con esse e d’altra parte le scavalca. Eucarestia e Chiesa sono l’identico corpo di Cristo: si illuminano a vicenda offrendosi come l’umanità resuscitata di Cristo, sua presenza viva in quanto segno che coincide (ma non si esaurisce) con il mistero divino di cui è funzione.
La Chiesa esiste solo “in mezzo al mondo”. Non è centrata su se stessa, ma orientata verso una missione che la chiama a dilatarsi nel tempo e nello spazio. È per sua natura “militante”, anche se il suo scopo non è la conquista o la fusione con il mondo. La sua identità è irriducibile, si radica in una sfera strutturalmente diversa, come fin dall’inizio è sancito nei testi del Nuovo Testamento: vocazione costitutiva per lei è solo quella di essere il “sacramento di Gesù Cristo” nella storia. C’è una identità fondamentale tra Cristo e la Chiesa: ultimamente sono una sola cosa, dal punto di vista del fedele che vive nell’orbita del tempo umano (bellissima è la citazione di Giovanna d’Arco che inserisce a questo proposito de Lubac), ma non si possono ridurre alla semplicità di un’unica persona fisica. Il segno umano della Chiesa è al fondo sempre un rimando: contiene in sé la realtà a cui fa risalire, e nello stesso tempo deve accettare di “sparire” davanti al Signore che le dà vita. È “un dito che indica”, la Sposa che consente di contemplare la bellezza dello Sposo, riflettendo sul proprio volto un raggio della sua perfezione sovramondana. La catena dell’affetto nuziale celebrato dal Cantico dei cantici è quella che li lega. La Chiesa “si costruisce cantando”. È come un concerto che comunica con i suoi suoni la realtà suprema di Dio: il “concerto della carità unanime”, nel quale “si canta” la realtà della vita nuova di Cristo che, “traboccando dalla comunità”, diffonde la carità e l’“allegrezza pasquale” in una “nuova armonia” chiamata a investire la vita concreta degli uomini in attesa.
Per ognuno di loro, sull’esempio supremo di Maria, la Chiesa è “maestra”. L’una e l’altra ci conducono maternamente, insieme, all’incontro personale con Cristo, di cui sono la “perfetta adoratrice”. Entrambe “magnificano il Signore”, cominciando dal mettersi, pieni di riconoscenza commossa, ai piedi della croce su cui risplende il paradosso di una Gloria espropriata dalla forza trascinante dell’amore.