Leggendo i giornali e seguendo programmi di informazione politica sembra ormai pacifico che le prossime elezioni saranno – non solo in Italia – all’insegna della scelta drammatica tra difesa e rilancio dell’Europa o catastrofe nazional-populista. La proposta diffusa di un Monti bis è infatti, come Scalfari ha precisato, legata alla continuità della linea del governo Monti in tema di politica di bilancio e di lotta al debito pubblico.
Dico subito che ho aderito al movimento federalista europeo di Altiero Spinelli perché sono convinto che anche oggi solo un orizzonte europeo può dare ancora un senso al ruolo dell’Occidente nel sistema globale. Resto tuttavia assai perplesso dalle modalità e dai contenuti con cui si sta sviluppando la discussione sull’Europa nel nostro Paese e negli altri stati europei. Ho sempre fisso il ricordo al drammatico libro di Maria Zambrano quando molti decenni fa, poco dopo la seconda guerra mondiale, prefigurava una lenta agonia dell’Europa qualora si fosse arrestato tutto alla sfera economica e al mercato.
Perché un giovane italiano o spagnolo o tedesco dovrebbe oggi sentirsi motivato a lottare per l’unità dell’Europa se poi essa si presenta nella vita di tutti i giorni come andamento delle borse, sali e scendi dello spread, diffidenze dei governi e sostanziale immobilismo sui problemi più drammatici dell’occupazione e della tutela dei più deboli? È paradossale, ma oggi si difende un’Europa rappresentata da istituzioni neppure democratiche senza fare alcun vero appello alle profonde ragioni spirituali e culturali che possono spingere ciascuno di noi a sentirsi europeo pur senza contraddire la propria identità nazionale. Quella che si presenta agli occhi di tutti è un’Europa frigida, fatta solo di commissioni e di banche centrali senza alcuna cultura che animi davvero uno spirito europeo, capace di ridare identità ideale anche a chi oggi è costretto a fare l’esperienza della povertà e dei sacrifici.
Come tutti i giovani europei dopo la guerra, ho viaggiato in lungo e in largo e ricordo bene il clima di affettuoso cameratismo che si respirava negli alberghi della gioventù. Specialmente per chi seguiva la traiettoria dei paesi nordici – come capitava spesso in quel periodo – era davvero un momento di grande educazione spirituale incontrare lungo le rive del Reno giovani provenienti da tutte le parti d’Europa che cercavano di ragionare insieme sulle tragedie della guerra ancora recente e sulle tracce mostruose che i bombardamenti avevano lasciato sulle grandi città tedesche. Ricordo tuttora la visita di una Colonia ancora semidistrutta e del bellissimo duomo svuotato e come, di fronte a quelle macerie, i giovani di tutta Europa provavano a creare un linguaggio comune di pace e collaborazione.
Tra gli anni 60 e 70 i viaggi non erano organizzati dalle scuole e dalle università: i ragazzi viaggiavano autorganizzandosi con appuntamenti simbolici nei luoghi più significativi della scuola europea. I tentativi di comunicare si risolvevano spesso nel canto di canzoni popolari comuni a tutte le tradizioni. Persino Lili Marleen era diventata quasi una sigla degli incontri che spontaneamente avvenivano nei saloni degli alberghi della gioventù. Può sembrare paradossale ma dopo la guerra mondiale l’Europa come realtà spirituale e come incontro di culture e popoli diversi era una realtà pratica che dava vita ad un’enorme circolazione di gioventù con una grandissima voglia di incontrare e capire le ragioni degli altri.
Oggi non ho la stessa sensazione che i giovani italiani o spagnoli si sentano europei come negli anni 70, sebbene i loro spostamenti siano facilitati dai programmi universitari e dallo scambio fra le famiglie. I giovani che oggi vanno a Londra sono motivati essenzialmente dalla necessità di apprendere la lingua dominante e dall’acquisire un qualche titolo di studio che possa arricchire le loro competenze tecniche nella prospettiva di ritrovare un lavoro più qualificato in Italia. Al contrario, la vita giovanile dei movimenti dei partiti di massa, sia pure spesso motivati da un internazionalismo ideologico, favorivano un tempo grandi raduni di giovani pieni di speranze nel futuro che consideravano le frontiere doganali il residuato di una vecchia cultura autarchica. Certo, io ricordo il raduno dei giovani comunisti e l’entusiasmo che contagiava tutti nel cantare gli inni della rivoluzione, ma questi raduni giovanili erano comuni a tutte le diverse appartenenze politiche e religiose e davano la misura di una integrazione spirituale di cui oggi non ci sono più tracce.
Oggi la maggioranza dei popoli europei è afflitta da depressione e diffidenza verso ogni straniero e soltanto la ricchezza diventa il parametro del riconoscimento sociale di chiunque si trovi a circolare per l’Europa. Gli alberghi di lusso sono quasi tutti asetticamente americani; gli incontri hanno caratteri formali e accademici; nessun partito europeo e neppure i sindacati sono riusciti ad europeizzarsi. In passato c’è stato solo un momento − quando si è discusso della cosiddetta costituzione europea − in cui è stato posto al centro il problema delle radici culturali comuni, e ricordo bene che allora il riferimento alle radici cristiane fu rifiutato dai rappresentanti dei vari Paesi poiché ritenuto una contraddizione insostenibile per un’Europa che si voleva laica e illuminista. Da quel momento in poi non si è fatto alcun tentativo di costruire le condizioni comuni per una vera cultura europea che non fosse fondata soltanto sulle convenienze economiche.
L’Europa si è rattrappita, come ha scritto Massimo Franco sul Corriere della Sera, e non si riesce persino più a rintracciare una politica della sicurezza militare comune a tutti gli stati dell’Unione. Il Mediterraneo è scomparso dall’orizzonte politico e il rapporto fra l’Europa e la cosiddetta primavera araba è solo la prova di un persistere di egoismi nazionali e di pretese di dominio economico. La vicenda libica è stata il teatro di una ignobile competizione fra i diversi Stati europei che aspiravano al controllo del petrolio libico. Agli occhi della maggior parte degli europei l’Europa della troika e della commissione, nonostante gli sforzi di Mario Draghi, appare come un’istituzione lontana e priva di legittimazione che in virtù di poteri non dichiarati pubblicamente decide sulla vita degli Stati costretti a chiedere aiuto per non fallire.
Nei luoghi di studio e nelle università si è perso completamente il contatto profondo con le diverse componenti della cultura europea. La Francia di cui si parla nei nostri convegni e nei nostri incontri culturali è quella di Marc Augé, per citare solo un nome, in cui si descrive la decomposizione di ogni luogo sacro. La Germania è quella di Sloterdijk che rappresenta con le sfere di cristallo la complessità del mondo. Quel che viene dalle altre aree dell’Europa è, nella migliore delle ipotesi, la sociologia di Bauman o di Zizek. Nessuno dei festival culturali e filosofici, proposti in Italia o in Europa, affronta in modo compatto e approfondito uno dei filoni della cultura europea: il grande pensiero laico sviluppatosi in Francia lungo la storia di questi secoli; lo spirito religioso e anche il doloroso disincanto della tradizione tedesca; il coraggio della resistenza e della difesa dei propri caratteri popolari da parte dei cosiddetti Paesi dell’est.
Senza le radici cristiane, senza l’illuminismo francese, senza la grande cultura tedesca e senza la musica che è stata prodotta meravigliosamente dagli uomini più inquieti del centro Europa non c’è alcuna ragione per sentirsi europei. Reichlin e Scalfari sbagliano cercando di fondare la necessità dell’Europa sulla indubbia razionalità dell’integrazione economica, perché non colgono la necessità non soltanto della componente politica, ma dello spirito europeo come riscoperta di una comune tradizione che ci ha reso e ci rende diversi dal resto dell’occidente.
L’Europa si costruisce più negli agriturismi dove gli stranieri si incontrano con il nostro stile di vita e riescono a capirne i mostruosi difetti ma anche gli innumerevoli pregi; si costruisce sempre più nello scambio degli studenti fra università europee senza ostacoli burocratici e restrizioni incomprensibili. Frequentare per un anno una scuola non italiana è un piccolo mattone della costruzione europea. Se vogliamo mettere realmente l’Europa al centro del dibattito elettorale non dobbiamo soltanto limitarci a discutere delle restrizioni economiche, imposte a chiunque chieda l’aiuto europeo, ma dobbiamo creare le condizioni perché si formino aggregazioni politiche davvero europee; sindacati che superino la ristrettezza dei confini aziendali e sviluppino una politica comune del lavoro e dell’occupazione; rapporti interculturali e interreligiosi che rimettano al centro dell’esperienza comune anche la dimensione del sacro e del trascendente. La laicità deve consistere essenzialmente nell’apertura e nell’assenza di pregiudizi verso chi è portatore di altre esperienze e non già nell’imposizione tecnologica di un sapere asettico, privo di alcuno sfondo umano come orizzonte condiviso.
In tutte le epoche storiche in cui l’Europa, nonostante le guerre civili e le lacerazioni fra gli Stati, ha rappresentato un punto di riferimento per l’intero occidente, lo spirito europeo si è incarnato in grandi movimenti culturali come il Rinascimento italiano, l’Illuminismo francese e il romanticismo tedesco. L’Europa è stata la patria della storia e della memoria del pianeta e solo questa storia, per certi aspetti terribile, di guerre civili e di violenze inaudite ha realizzato alla fine il più originale meticciato del pianeta dove diverse tradizioni e diverse storie hanno creato un’esperienza di apertura e di accoglienza che nessun’altra civiltà ha conosciuto. La straordinaria capacità di integrare la singolarità di ogni vicenda e l’universalità della prospettiva umanistica è il cuore della tradizione europea che può motivare un nuovo slancio vitale verso il futuro.
Chi si candida a governare dopo Monti, se vuole tematizzare la centralità dell’Europa, deve riuscire a proporre nuove istituzioni per creare una vera comunicazione tra popoli diversi e una comune cultura della reciprocità e del riconoscimento. Un grande istituto di storia europea, un grande progetto per gli studenti, nuove sedi per il confronto politico fra le forze che lavorano nella prospettiva di un futuro diverso dall’attuale miseria economicistica che la Zambrano aveva così profeticamente previsto.