Il tema della natura dell’uomo in rapporto all’infinito, che ha dato il titolo all’ultima edizione del Meeting di Rimini, è davvero ricco di applicazioni e, tra queste, una delle meno scontate, ma anche una delle più feconde, è quella relativa al matrimonio.
In un saggio recentemente ripubblicato, Julia Kristeva si chiedeva: “se il desiderio è volubile, ebbro di novità, instabile per definizione, che cosa è che spinge l’amore a sognare la coppia eterna? Perché la fedeltà, il giuramento di un’intesa durevole?”.
Molte le ragioni tentate per spiegare questo strano moto del cuore e tutte insoddisfacenti. Gli etologi hanno parlato, per la donna, di un istinto uterino di stabilità per assicurare un nido alla prole. Ma per il maschio? Per quest’ultimo e per entrambi i sessi, i sociologi e gli psicologi hanno parlato di un bisogno di sicurezza contro la perdita di identità provocata da un contesto sociale caratterizzato dall’aperta molteplicità dei piaceri e dei godimenti, dall’inversione e dalla confusione dei ruoli. Di fronte a questa perdita d’identità e a questa confusione la coppia stabile funzionerebbe come “specchio durevole” di un “riconoscimento ripetuto”, di un ruolo consolidato e confortevole, attraverso il quale recuperare la propria identità perduta. Ma, allora, perché il sogno della coppia eterna attraversa tutte le epoche, indipendentemente dal contesto sociale e culturale, come un mito, da Orfeo ed Euridice in avanti?
Qualche tempo fa, nelle discussioni che hanno preceduto e seguito un incontro con alcuni amici che operano nel campo del diritto, proprio sul tema del matrimonio, si era tentato di far vedere come le concezioni di fondo dell’amore di coppia avessero declinazioni giuridiche tipiche. In questa prospettiva si erano provocatoriamente individuate alcune inaspettate conseguenze della visione “sentimentale” del matrimonio, proprio in rapporto alla sua instabilità, con conseguente massiccio ricorso, nelle società dove tale visione prevale, agli istituti giuridici (come il divorzio o la separazione) che a questa instabilità si connettono. Sempre in quel contesto si era, invece, cercato di chiarire quali diverse ricadute avesse il matrimonio inteso come “promessa”, impegno di uomo e donna alla durata, riflettendo su quale fosse il “precipitato giuridico” di una simile visione, con particolare riguardo alla concezione “neo-istituzionale” della famiglia in confronto alla concezione “contrattuale” dell’unione di coppia.
Il rischio è che le severe forme dei ragionamenti giuridici oscurino la bellezza di ciò che rivestono e possano addirittura creare equivoci, tanto che il “matrimonio-promessa” o il “matrimonio-istituzione” possono essere visti addirittura come un legame fatto solo di obblighi e di scelte della ragione, prodotto di un freddo calcolo razionale, quasi che in esso il sentimento non avesse alcun ruolo e vi fosse addirittura osteggiato. Nulla di più falso.
Ecco, allora, che proprio il tema della natura dell’uomo in rapporto all’infinito può svelare la sostanza sottesa alla visione del matrimonio come promessa, ecco allora che il matrimonio come promessa può rivelarsi per quello che è davvero: espressione insopprimibile, che attraversa tutte le genti e tutte le epoche, di un’ansia di infinito connaturata all’uomo in quanto tale (sia esso maschio o femmina); dinamismo di sentimento e ragione che spinge il cuore dei coniugi a non accettare la transeunte instabilità delle proprie voglie per impegnarli ad accedere ad una dimensione ulteriore dell’amore, in cui potersi ritenere veramente appagati e non perennemente insoddisfatti, consapevoli della continua possibilità delle proprie cadute, ma sempre animati dalla volontà di rialzarsi per proseguire la strada insieme.
Questo spiegherebbe perché, nel matrimonio come promessa, anche l’amore maturo delle coppie durature non assume mai le forme di un “amore appassito”, magari un po’ grottescamente “birichino” ma che ormai “ha messo giudizio nelle gialle foglie autunnali dell’amicizia” (l’espressione è sempre della Kristeva), e consentirebbe di vedere, invece, che esso costituisce sempre appassionata e coraggiosa conferma della promessa di un tempo nell’attualità quotidiana. Questo spiegherebbe perché, all’interno di una coppia unita da una “promessa”, prenda vita quanto di più simile ci può essere al mistero dell’eterno, quello stesso mistero che, di fronte all’alternativa tra il “nulla” e la pienezza del “tutto”, porta la nostra “natura”, il nostro “cuore”, a preferire e sperare che alla fine ci sia il “tutto”, piuttosto che il “niente”, che nulla sia andato perduto di quello che si è vissuto, piuttosto che tutto si sia smarrito per strada.
Forse la comprensione che, dietro l’apparente astrattezza delle forme giuridiche (come quelle del “contrattualismo” o del “neoistituzionalismo”), vi sia non solo la concretezza vitale dei rapporti umani, ma anche la bellezza di questioni come il rapporto tra la natura dell’uomo e l’infinito, potrebbe portare anche il giurista ad un altro livello di consapevolezza circa il suo ruolo, il suo lavoro e il suo studio.
Sarebbe bello, allora, che in questa epoca di entusiasmi per le unioni di fatto e di facili lodi per un sentimentalismo di superficie, si potesse intessere un elogio del matrimonio d’amore come ansia d’infinito della coppia, e sarebbe bello che, anche chi opera nel campo del diritto, potesse trarre da un simile elogio le corrispondenti declinazioni nel proprio ambito e contribuire ad elaborarle e perfezionarle.