I libri sono scritti per essere letti, non raccontati. E questo vale soprattutto per il bel libro del mio grande amico Giuliano Cazzola, “Figli miei precari immaginari”: non solo perché il bravissimo e coraggioso editore Angelo Guerini non ne sarebbe ovviamente contento, ma perché è talmente pieno di spunti che non merita di essere ridotto a “bigino”.



La tesi del volume la dichiara esplicitamente l’Autore: “abbiamo a che fare con intere generazioni di giovani che hanno fatto della conservazione la loro bandiera, che stanno in prima fila a difendere quei ‘privilegi’ dei padri e dei nonni che hanno pesantemente ipotecato il loro futuro, che difendono un modello sociale di cui non faranno mai parte e che, a detta di Mario Draghi, non è stata in grado di sopravvivere alla fine del taylorismo, da un lato, alla crisi fiscale degli Stati, dall’altro”. È un giudizio secco e duro, da valutare seriamente poiché proviene da uno che non è stato, e non è tuttora, un mero competente osservatore delle dinamiche del lavoro e dei sistemi previdenziali, ma un protagonista da tanti decenni. Con un nota bene: Cazzola non è un cinico perché ai cinici le persone sono indifferenti; Giuliano affronta i problemi perché gli stanno a cuore le persone. Gli stanno a cuore davvero i giovani, per questo ha scritto un libro semplicemente realista, che non va nel verso del pelo, ma che dovrebbe provocare tutti ad interrogarsi seriamente e a cambiare modello di vita. Nel libro, ad esempio, mette in guardia i giovani lettori dalle false illusioni del “luogocomunismo” (un pensiero intessuto di luoghi comuni, come la mistica del precariato o quello della fuga dei cervelli: “non si venga a dire che all’estero trovano quella stabilità ‘giuridica’ che sovente viene invocata in Italia”), che senza risolvere i problemi incamminano i giovani “lungo un percorso senza sbocchi, dove non troveranno quell’Orto dei miracoli che il Gatto e la Volpe promettevano a Pinocchio [il posto fisso], ma soltanto degli assassini”. Il lavoro per Cazzola è anche una conquista, senza impegno non c’è lavoro: “è la parabola dei talenti a indicare la via giusta”. E il “talento non è solo una moneta. Rappresenta il capitale umano che una persona deve essere in grado di investire nell’ambito delle condizioni in cui si trova a vivere e ad agire, ma assumendo anche su stesso la responsabilità del proprio futuro”.



Ma Cazzola non rende mai ideologico il suo giudizio. Lo spiega con un mondo cambiato dalla globalizzazione, in cui regole vecchie non sono più valide.  Porta anche molti dati che non vengono quasi mai citati, perché non funzionali al luogocomunismo. Racconta anche la storia delle riforme del lavoro in Italia, da quella di Tiziano Treu a quella di Marco Biagi (l’amico a cui dedica il libro nel decimo anniversario dell’uccisione) a quella dello “Statuto dei Lavori” proposta da Sacconi che non ha visto la luce per la caduta del Governo Berlusconi. Racconta anche come sia cambiata in (molto) meglio e in che cosa, nel corso del lavoro parlamentare (di cui è stato protagonista assieme a Castro, Treu, Damiano e Ichino), la recente Riforma Fornero, nata in modo illuministico e riportata – e il merito di questo è soprattutto suo – a una ragionevolezza in grado di prevenire danni seri.



E questo perché Cazzola è un riformista vero, come Biagi, e come lui sa che le regole sono strumenti che devono servire alla società reale e che, quando pretendono il contrario (“costringere processi fattuali a sottoporsi a norme insostenibili”) sono condannate a essere violate o eluse. In un’epoca in cui la ribalta è, purtroppo, riservata a incantatori di serpenti o a chi fomenta con toni manichei il “tutti contro tutti”, il realismo, la ragionevolezza e la passione per le singole persone di Giuliano Cazzola sono merce rara e preziosa. Per questo vale la pena leggere questo libro. E di farlo leggere ai nostri figli.