La tesi che voglio mostrare è che lo sviluppo della crisi nella quale ci troviamo costituisce la riprova del fallimento del liberismo. Con questo non voglio dire, nemmeno implicitamente, che la dottrina ideologica di riferimento deve essere il socialismo o qualche altra ideologia. Non intendo affermare alcuna ideologia, vecchia o nuova. Semmai intendo affermare che, come oggi viene ripetuto da tanti, occorre ribadire il primato della persona di fronte a qualsiasi ideologia, pure in campo economico.
Ma cosa si intende per liberismo? Il liberismo è quella dottrina economica, strettamente dipendente dalla dottrina politica liberale, che tenta di tradurre in campo economico l’idea che la libertà è un bene comunque, in qualunque caso, in qualunque condizione. Per poter affermare questo, per poter affermare che l’assenza di regole (o il minimo di regole) in campo economico porta a un bene, deve affermare che la condizione di “libero mercato” è quella che conduce alla migliore efficienza dello scambio commerciale, insieme alla maggiore convenienza per gli attori del medesimo scambio, il compratore ed il venditore. A questo livello si introduce l’idea che il cosiddetto “libero mercato” è quello che, trovando il valore del prodotto venduto attraverso lo scambio commerciale, questo è il migliore sia per il venditore che per il compratore, e tale prezzo coincide necessariamente con il “giusto prezzo” per il prodotto stesso.
Storicamente, il liberismo ha le sue radici nella Rivoluzione Francese, ma inizia ad affermarsi con l’illuminismo scozzese e trova il suo grande sviluppo teorico grazie alla rivoluzione industriale in Inghilterra nel corso del diciannovesimo secolo e grazie agli studi di Adam Smith. Entrato in difficoltà in seguito alla crisi del 1929 e al diffondersi delle teorie keynesiane e più in generale con il diffondersi di visioni collettiviste, il liberismo ha conosciuto una rinascita negli ultimi anni del XX secolo (neoliberismo) in seguito all’affermazione politica di Reagan e della Tatcher, e alla successiva diffusione del processo di globalizzazione e, in campo teorico, con la rinascita della cosiddetta Scuola austriaca. In alcuni autori, tra i quali il più famoso è il premio Nobel Milton Friedmann, il liberismo è strettamente connesso al monetarismo, che si occupa di stabilire i rapporti tra offerta di moneta e livello dei prezzi.
In realtà, il grande successo del liberismo è dovuto alla clamorosa caduta dei suoi principali avversari storici, prima il marxismo e poi il comunismo. L’espansione economica ottenuta dagli Usa grazie a Ronald Reagan negli anni ’80 ed il successivo crollo del comunismo (il crollo del muro di Berlino è del 1989), costituirono il trampolino di lancio del liberismo come strumento di affermazione dei principi di libertà da affermare (o da far affermare, magari con una temporanea costrizione, o forzando poco o tanto gli eventi) in tutto il mondo, valido per tutti i popoli.
Ma il liberismo, sin dalle sue fondamenta, soffre di alcuni gravi difetti ideologici, che avrebbero dovuto mettere tutti in guardia sulla fragilità di questa dottrina economica. Il liberismo, infatti, poggia tutta la sua dottrina sul principio di inviolabilità della proprietà privata. L’affermazione della proprietà privata è sempre stata vista, giustamente, come uno dei cardini delle libertà individuali. Persino la dottrina cattolica afferma che “la proprietà privata e le altre forme di possesso privato dei beni […] devono essere considerati come un prolungamento della libertà umana. Costituiscono in definitiva una delle condizioni delle libertà civili, in quanto producono stimoli ad osservare il dovere e la responsabilità” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 176).
La stessa dottrina della Chiesa stabilisce molto chiaramente i limiti della proprietà privata, affermando esplicitamente “il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell’uso comune, alla destinazione universale dei beni”.
In altre parole, il bene comune è un principio superiore alla proprietà privata; quindi è questa seconda che si deve adattare al primo. “La proprietà privata, infatti, quali che siano le forme concrete dei regimi e delle norme giuridiche ad essa relative, è, nella sua essenza, solo uno strumento per il rispetto del principio della destinazione universale dei beni, e quindi, in ultima analisi, non un fine ma un mezzo. L’insegnamento sociale della Chiesa esorta a riconoscere la funzione sociale di qualsiasi forma di possesso privato, con il chiaro riferimento alle esigenze imprescindibili del bene comune” (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 177-8).
Se lo stato è l’istituzione che si occupa del bene comune, la dottrina liberista non conosce limiti al restringimento degli interventi dello stato, se non quelli per cui lo stato, costruendo le infrastrutture, favorisce il libero mercato. Di fatto, nella dottrina liberista, lo stato, da difensore e promotore delle libertà dell’uomo, viene ridotto a difensore e promotore del libero mercato. E il cittadino viene ridotto a consumatore.
In questo senso, la dottrina liberista è sicuramente incompatibile con la dottrina cattolica sociale; ma è parimenti in contrasto con chiunque voglia affermare il primato dell’uomo rispetto all’economia. Tale affermazione nasce dal riconoscimento del principio di verità (in questo caso, la verità consiste nell’affermazione del vero bene per l’uomo). Storicamente, tale principio, in Europa, è stato portato e trasmesso dalla dottrina cattolica, attraverso lo strumento dell’autorità. L’autorità doveva (e deve) quindi essere al servizio della verità. Quando l’autorità ha tradito il suo compito, chi ha contestato l’autorità per affermare la verità ad un certo punto ha ritenuto opportuno andare a vincere la partita con l’autorità a tutti i costi, a qualsiasi costo. E così a rimetterci è stata la verità.
Uno dei principali attori di questo processo culturale, è inutile negarlo, è stato il protestantesimo luterano. Qui non si intendono negare le gravi colpe e le responsabilità in campo cattolico, ma si intende affermare con altrettanta chiarezza che la “soluzione” protestante è stata quella, per usare un modo di dire popolare, di buttare il bambino insieme all’acqua sporca (buttare la verità insieme all’autorità).
Ma senza una autorità, che richiami ad una norma oggettiva e ad un valore oggettivo, il massimo bene concepibile diventa la persona definita come soggetto individuale, non la persona definita come soggetto relazionale collocata in un contesto sociale. Da queste due visioni sull’uomo nascono le due diverse concezioni sulla prevalenza della libertà (intesa come libertà totale, libertà da tutte le regole; la libertà come definizione del bene ultimo per l’uomo) o del bene comune (in questo caso il bene comune diventa l’ambiente ideale dentro il quale collocare la libertà e gli altri diritti inviolabili dell’uomo).
Storicamente, è evidente, la cultura luterana, almeno in campo economico, ha avuto la meglio proprio grazie all’affermazione del liberismo. Non a caso, Adam Smith è inglese, mentre la Chiesa Cattolica ha continuato nei decenni a sviluppare una propria dottrina sociale attraverso una lunga serie di encicliche, che hanno sempre meglio definito il pensiero cristiano in materia. Dalla Rerum Novarum (1891) in poi, la produzione di lettere Encicliche in materia sociale è stata intensissima. Questo è l’elenco completo: Quadragesimo Anno (1931); Divini Redemptoris (1937); Mater et Magistra (1961); Pacem in Terris (1963); Popolorum progressio (1967); Octuagesima adveniens (1981); Laborem excercens (1981): Sollecitudo rei socialis (1987); Centesimus Anno (1991); fino alla recentissima Caritas in Veritate (2009).
Alla nascita dell’Europa, la supremazia della cultura liberista è stata resa evidente dal rifiuto di affermare, anche solo nel preambolo del progetto di Costituzione europea, le origini giudaico cristiane dell’Europa. Purtroppo, il dibattito in materia si è ridotto alla discussione se clericalizzare o meno la costituzione. E a rimetterci è stata, come al solito, la verità, il fatto che all’origine dell’idea di Europa vi siano principi di unità dei popoli, di fratellanza dei popoli, che sono storicamente, oggettivamente, principi cristiani. Per rimanere ai giorni nostri, fuori dall’Europa vi sono ancora esempi di paesi che hanno ottimi rapporti di vicinato, che si riuniscono insieme per risolvare problemi comuni, come i paesi dell’America Latina: ma si tratta di nuovo di paesi con forte caratterizzazione religiosa cristiana, anzi cattolica.
Ora questa concezione, la concezione che la prevalenza della libertà individuale sul bene comune portasse comunque al bene comune, è una concezione contraddittoria nei suoi termini: come si può pensare che l’affermazione di un principio in fondo individualista, cioè egoista, possa portare come risultato, se sviluppato su scala sociale ed economica, ad un beneficio sociale, cioè altruista?
La crisi attuale non è niente altro che l’evidenza e l’esperienza di questa contraddizione, resa drammaticamente distruttiva e dolorosa dalla globalizzazione e dalla potenza della tecnologia. Tale contraddizione si manifesta laddove, per esempio in Italia, lo stato mette a disposizione soldi e garanzie per il sistema bancario, sofferente rispetto ai criteri di sostenibilità del debito oggi in voga, ma poi è costretto a tagliare servizi sanitari e sociali ai più deboli per sopperire al denaro impiegato a favore del sistema bancario. La stessa Bce, ha impiegato decine di miliardi a favore della Grecia imponendo condizioni durissime per il popolo, ma quei soldi sono poi confluiti a pagare il debito greco, cioè a banche francesi e tedesche. Si rispettano i principi, ma si fanno soffrire i popoli, come se la questione fosse un accessorio trascurabile.
Di fronte al disastro ormai conclamato, non si vede alcun tentativo di revisione culturale rispetto alla posizione assunta; nessun tentativo di rigettare il liberismo. Al contrario, si tenta di nuovo di addossare alla cultura cattolica la colpa di una crisi che nascerebbe dall’incapacità di essere finanziariamente efficiente, senza rendere conto del fatto che chi deve fornire un servizio sociale non ha il compito della stabilità finanziaria.
Un recente articolo apparso sul Corriere della Sera del 5 settembre a firma di Massimo Franco, conferma questa linea di accusa alla Chiesa e alla cultura cattolica: “Forse non tutti sanno, ma in Nord Europa molti pensano che lo spread alto sia il frutto di un peccato cattolico […] si tratta di un aspetto delle polemiche degli ultimi mesi affrontato solo di sfuggita. Eppure affiora a intermittenza, mentre l’euro comincia ad evocare non più ricchezza e stabilità, ma disoccupazione, povertà e declino […]. Richter è un commentatore cattolico, ma soprattutto tedesco. E teorizza che un eccesso di cattolicesimo danneggia la salute fiscale delle nazioni”.
Anche io sono contro gli eccessi, contro ogni eccesso. Ma qui siamo in una situazione (come per la moneta) di mancanza di principi sociali cattolici, non di eccesso. E se i paesi del sud Europa fossero stati meno larghi nelle spese, i primi a soffrirne sarebbero stati proprio gli efficienti paesi del nord Europa. Al contrario, invece di guardare in faccia alla realtà di questa crisi, che viene dall’imposizione di un modello liberista che non mette al centro il bene comune, l’articolo sopra citato, ricordando che la Merkel è figlia di un pastore protestante e il presidente tedesco Gauck è un ex pastore luterano, si conclude con la preoccupazione che la “geo-religione dello spread” possa accentuare le divisioni.
Forse è il caso di rimettere mano alla progetto di una Costituzione europea e al Trattato di Lisbona. E di prepararsi alla stampa di una moneta nazionale italiana.