Quest’estate ho letto La peste, il grande romanzo di Albert Camus (1913-1960), forse quello a cui (assieme a Il mito di Sisifo e a Lo straniero) maggiormente è legato il nome del romanziere franco-algerino. Camus è stato uno dei migliori narratori del cuore umano che il Novecento abbia avuto e ancora oggi rimane fondamentale al livello della descrizione di cosa voglia dire per l’uomo contemporaneo mettersi alla ricerca del significato della propria vita. I suoi personaggi, infatti, sono tutti più o meno caratterizzati da questa ricerca del senso e ciò che li rende affascinanti è il grado di sofferenza che l’accompagna, quel grido (a volte disperato) che non si potrebbe spiegare se non con una lucida coscienza dell’enormità del problema.



Le cose appena dette (e quelle che immediatamente seguiranno in tema di letteratura) sono, però, riflessioni di un non addetto ai lavori, cioè di uno dei (tanti?) semplici lettori dei classici della narrativa contemporanea, che si mette a leggere senza un vero e proprio programma di lettura. Di recente era stata la visione al cinema del film Il primo uomo di Gianni Amelio, tratto dall’omonimo romanzo postumo di Camus, a risvegliare un interesse per l’opera di un romanziere non cristiano, ma che (come capì tra gli altri Charles Moeller nei suoi volumi su Letteratura moderna e cristianesimo) ebbe molto da dire alla coscienza anche cristiana (e cattolica) dell’Europa. 



Il Meeting di Cl di quest’anno aveva per titolo La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito e questo è il motivo per cui Camus può aiutarci a comprendere meglio il senso dell’ultima edizione del grande evento culturale cattolico che ogni anno, verso la fine di agosto, si tiene a Rimini. Anche le pagine di Camus, infatti, parlano del rapporto dell’uomo con l’infinito e raccontano di una posizione umana intrinsecamente comprensiva, cioè non pregiudizialmente chiusa alla possibilità almeno di affrontare i grandi temi dell’esistenza. Perché l’infinito è (senza dubbio) un tema grosso. 



Certo, c’è un modo astratto di parlare dell’infinito e c’è anche un modo astratto di parlare di Dio e di Cristo, un modo di essere cristiani senza Cristo. Ammettere che il tema della totalità supera la capacità di comprensione umana, come sostiene Claudio Magris in un fondo del Corriere della Sera del 20 agosto, non significa però che il cuore dell’uomo non aspiri a quella totalità e che la Chiesa non possa parlare della totalità, aiutando l’uomo nel suo rapporto con l’infinito e proponendo Cristo come risposta; un “divieto” che invece lo stesso Magris suggerisce quando scrive: “quest’oltre può essere vissuto e sentito, ma non predicato“. Sarebbe come dire che non è possibile discutere di tutte quelle cose sulle quali non abbiamo una comprensione esaustiva. Senza contare il fatto che, in un atteggiamento di questo tipo, non risulta chiaro cosa si intenda per comprensione esaustiva. Forse conoscenza esatta di tipo matematico? Magris sembra pensarla proprio così: “Forse – non lo so – matematici e fisici possono cercare di catturare l’infinito nei loro calcoli, ma nella vita d’ogni giorno non è certo il caso di rompersi la testa sulla sua inafferrabilità e di atteggiarsi a pensosi e tormentati spiriti prodi in cerca dell’assoluto“. 

Ma, se vale questa equazione tra conoscenza e conoscenza matematica, allora se ne deve concludere che non è possibile conoscere nessuna verità se non attraverso il metodo matematico e che, dunque, la conoscenza umana (che è qualcosa d’altro dalla conoscenza esatta) non può arrivare alla verità. Siamo al razionalismo, radice profonda dell’intolleranza, che (a dispetto dei cantori odierni del relativismo) si basa non sull’affermazione della verità, ma (al contrario) sulla pretesa (pregiudiziale) di sostenere che la verità o non è conoscibile o (peggio) non esiste. Solo se sono aperto alla possibilità che esista la verità e che sia in qualche modo conoscibile, rispetto le opinioni di tutti; altrimenti, sono portato a bollare come falsa ogni opinione altrui, per il semplice fatto che non coincide con la mia.

Il discorso sarebbe lungo (e affascinante), anche se vale comunque la pena ricordare che, certo, esiste una tolleranza che non si basa sull’affermazione della verità, ma non è autentica tolleranza, trattandosi soltanto di semplice convivenza: una sorta di pace armata tra due (o più) litiganti che si mettono d’accordo non perché comprendono le ragioni l’uno dell’altro, ma semplicemente perché estenuati dalla lotta. Non sono temi astratti, perché la comprensione delle ragioni dell’altro è anche la dinamica dell’amicizia. E dell’amore, che implica (anche) la dimensione dell’amicizia.

Sa cosa dovremmo fare per l’amicizia?” chiede, nella Peste di Camus, Tarrou al dottor Rieux, il protagonista del romanzo. “Quello che lei vuole“, dice Rieux. “Un bagno in mare; anche per un futuro santo, è un degno piacere“. C’è una liberazione che non viene soltanto dalla nostra misura, ma da quel mare immenso, quel Mediterraneo sulle cui sponde africane Camus nacque, forse la più potente forza ispiratrice della prosa di Camus, segno di un significato totale per l’uomo:

Poco dopo l’automobile si fermava presso i cancelli del porto. Si era levata la luna, un cielo lattiginoso proiettava pallide ombre dappertutto. Dietro di loro digradava la città, e ne veniva un soffio caldo e malato a sospingerli verso il mare […] Il mare ansava dolcemente ai piedi dei grandi blocchi del molo, e quand’essi li ebbero superati, apparve spesso come un velluto, flessibile e liscio come una belva. Si  misero sugli scogli rivolti al largo. Le acque si gonfiavano e calavano lentamente. La calma respirazione del mare faceva nascere e sparire dei riflessi oleosi alla superficie delle acque. Davanti a loro la notte era senza limiti. Rieux che si sentiva sotto le dita la faccia butterata degli scogli, era pieno di una strana gioia“.