Daremmo retta a qualcuno che pretenda di spiegarci la sfrenata corsa di un animale senza menzionare in alcun modo la preda che gli scappa davanti? Possiamo capire la ragione dell’assembramento ordinato di persone all’ingresso del Louvre senza ritenere che esso abbia a che fare con le opere d’arte che sono raccolte in quel museo? Sembra ovvio rispondere di no, tanto evidente e “spontanea” è l’esperienza secondo la quale la realtà che ci circonda, e quella che noi stessi siamo, restino incomprensibili se non si riconosce in esse una tensione verso dei fini. Quando parliamo di “senso” di qualcosa che accade di fronte ai nostri occhi, o più radicalmente, della nostra stessa vita, di che cosa stiamo in definitiva parlando se non di una tensione a qualcos’altro o a qualcun altro? Una tensione senza la quale un cane che stiamo vedendo correre, o ciò che in un dato momento stiamo facendo, semplicemente diventa incomprensibile, assurdo. Appunto, “privo di senso”. 



Da decenni il filosofo tedesco Robert Spaemann riflette sul problema del pensiero finalistico nella convinzione che, attorno alla questione della sensatezza della domanda circa il fine, si sia giocata una partita decisiva lungo l’intera storia della cultura occidentale. Senza andare al fondo del significato, alla radice (e alla storia) di questo specifico modo di vedere il mondo – questo il giudizio di Spaemann – non è possibile comprendere la trama che, fin dalle sue origini, muove la storia della comprensione filosofica della natura e dell’uomo stesso. Non solo: neppure riusciremmo a cogliere la radice profonda di quella visione scientifica del mondo che, dall’inizio della modernità fino ad oggi, pretende di mettere in discussione proprio l’esperienza ordinaria (e teleologica) della realtà che ogni uomo fa, riducendola a interazioni di processi (fisici, psichici) del tutto privi di direzione. 



Questi temi sono stati al centro della giornata di studio in onore di Spaemann che si è tenuta giovedì a Roma, presso l’Aula Magna della Pontificia Università della Santa Croce, in occasione della pubblicazione, da parte delle Edizioni Ares, del volume del pensatore tedesco Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico, curato e tradotto da Leonardo Allodi e Giacomo Miranda. 

Il Rettore dell’ateneo romano, Luis Romera, il cardinale Camillo Ruini – il quale firma anche la prefazione –, Sergio Belardinelli e Leonardo Allodi hanno riflettuto ad ampio spettro sulla proposta filosofica del pensatore tedesco. A Spaemann stesso è spettata la chiusura dei lavori. 



Con Fini naturali il lettore italiano ha ora a disposizione l’opera che Spaemann stesso ha chiamato l’“arcano di tutti gli altri miei lavori” e nella quale, avvalendosi della collaborazione del suo allievo prematuramente scomparso Reinhard Löw, egli ha più ampiamente ed organicamente trattato il problema del finalismo.

La posta in gioco nella questione della teleologia non è, per Spaemann, semplicemente quella di far strada, nel dibattito filosofico attuale, ad un altro “modello di interpretazione” dei fatti naturali, alternativo a quello meccanicistico dominante ormai da secoli. L’uomo non si può accontentare di “interpretazioni” indifferenti a come stanno veramente le cose. La questione quindi è, più propriamente, una questione di conoscenza: capiamo di più il mondo e noi stessi se eliminiamo i fini? La risposta di Spaemann è un secco “no”. 

Vi è tuttavia un’altra implicazione della mossa spaemanniana la quale è, dal punto di vista culturale ed esistenziale, altrettanto radicale: censurare la piena consistenza finalistica della natura comporta per l’uomo la condanna a non riuscire a comprendere se stesso, a consegnarsi senza difesa ad uno sguardo – quello della scienza antiteleologica moderna – il cui interesse fondamentale non è quello di comprendere, ma quello di dominare e di trasformare ciò che essa tratta. Sergio Belardinelli, nel suo intervento, ha ricordato, proprio a tale riguardo, la diffusa inquietudine che oggi suscitano in noi le conquiste delle biotecnologie. Spaemann ritiene l’interesse tecnico-scientifico un interesse strutturale della ragione e necessario alla sopravvivenza dell’uomo. Esso però non può e non deve pretendere di ampliare se stesso fino al punto di sentenziare l’irrilevanza dell’altro interesse, altrettanto connaturale, della ragione umana, quello per la scoperta del senso del mondo che abita e per la familiarità con esso. 

La sfida di Spaemnn a favore della riscoperta del pensiero teleologico si propone quindi come un invito alla ragionevolezza e al gusto di una rinnovata contemplazione della identità ultimamente indisponibile propria delle realtà naturali. Una sfida che argomenta in favore di una natura non-naturalistica e, allo stesso tempo, propone uno sguardo non-spiritualistico sulla spiritualità dell’uomo. 

Riscoprire le ragioni della teleologia naturale conduce infatti a manifestarsi l’identità, l’“esser-sé” dell’essere umano nel suo connaturale tendere oltre sé. Luis Romera, introducendo i lavori della giornata di studio romana, ha parlato del pensiero di Spaemann come di una riflessione che aiuta ad “orientarsi in una società emotiva” che, perdendo il senso dell’identità, ha perso anche la capacità di gestire le emozioni stesse. E il cardinal Ruini ha messo in evidenza la profonda assonanza della “critica della ragione positivistica” articolata da Spaemann con le diagnosi di Benedetto XVI sulla crisi dell’ethos contemporaneo, in particolare con quella del discorso al Reichstag di Berlino del settembre 2011. La riscoperta dell’identità finalisticamente orientata dell’uomo costituisce infatti per Spaemann proprio la premessa necessaria e feconda per un’etica della felicità nella quale la qualità di bene in cui consiste il fine più proprio e profondo dell’uomo può essere approfondita, indagata e difesa in modo più adeguato e persuasivo. Allo stesso tempo la sua antropologia culmina in una immagine di “persona” radicata proprio in quella eccedenza costitutiva inscritta e indicata nella natura teleologica dell’uomo. 

Un altro volume, da poco pubblicato per i tipi di Rosenberg & Sellier e curato da Ugo Perone, consente di vedere in azione il prezioso intreccio che Spaemann tesse tra questi temi. Si intitola Cos’è il naturale. Natura, persona, agire morale e raccoglie, oltre alle lezioni che il filosofo tedesco ha tenuto nell’ottobre 2011 a Torino, nell’ambito del X ciclo della Scuola di Alta Formazione Filosofica, anche gli approfondimenti frutto del dibattito tra il pensatore e i partecipanti ai seminari. Si tratta di un ulteriore importante contributo, non solo alla comprensione della riflessione spaemanniana sul tema della natura, ma anche al prendere familiarità con la peculiare caratteristica del filosofare spaemanniano. Come anche nei loro interventi a Roma Sergio Belardinelli e Leonardo Allodi hanno evidenziato, proprio il fatto di concepire la filosofia come una difesa e un approfondimento dell’esperienza spontanea (e teleologica) che ogni uomo immediatamente fa del mondo, degli altri e di sé, Spaemann è capace tanto di forza speculativa e critica, quanto, contemporaneamente, di mantenere alla propria parola e al proprio testo un connotato irriducibilmente “ingenuo”. Quella ingenuità carica di ragioni necessaria a difenderci − come si legge nelle righe iniziali di Fini naturali – dal “pregiudizio divenuto caro alla scienza, il pregiudizio che il senso sia una variabile del non senso, che la ragione sia una variante della non ragione e che l’uomo stesso sia un antropomorfismo”.