“La situazione della disoccupazione è drammatica, avevamo detto che l’euro avrebbe riequilibrato la società e invece la disoccupazione aumenta”: le dichiarazioni del presidente dell’Eurogruppo, Jean Claude Juncker al Parlamento Ue lo scorso 10 gennaio non meritano solo l’attenzione degli economisti. Per Juncker, bisognerebbe ritrovare la dimensione sociale dell’unione economica e monetaria, “con misure come il salario minimo in tutti i Paesi della zona euro, altrimenti perderemmo credibilità e approvazione della classe operaia, per dirla con Marx. I tempi che viviamo sono difficili, non dobbiamo dare all’opinione pubblica l’impressione che il peggio sia alle nostre spalle perché ci sono ancora cose da fare molto difficili”.
Alcuni hanno trovato abbastanza stupefacente il riferimento a Marx in relazione al reddito minimo garantito, non fosse altro perché non ci risulta che l’autore de Il Capitale fosse un entusiasta difensore di tale strumento di politica sociale. È probabile ed auspicabile che Juncker volesse dire altro, resta il fatto che il dibattito si è concentrato sul collegamento che il presidente dell’Eurogruppo ha stabilito tra giustizia sociale e reddito minimo garantito, mediato dal contributo di Karl Marx.
In una lettera del 5 novembre 1880 inviata a Friedrich Albert Sorge, rivoluzionario comunista tedesco, sul programma del partito dei lavoratori francesi, Marx bolla come “lusinga infantile” il salario minimo e scrive: “Nonostante la nostra protesta, Guesde ritenne necessario imporre alcune inezie ai lavoratori francesi, come il salario minimo stabilito per legge, ecc. (Gli ho detto: se il proletariato francese è ancora così infantile da aver bisogno di tali lusinghe, non vale neppure la pena di formulare un qualsiasi programma)”.
È un peccato che il presidente dell’Eurogruppo abbia presentato un simile rispettabilissimo strumento di politica sociale nel peggiore dei modi. Uno strumento sicuramente discutibile e sul quale sono legittime perplessità e critiche di ogni sorta, ma che di certo nulla ha a che fare con Marx. Semmai sarebbe stato più naturale e decisamente più facile fare riferimento alla tradizione cristiana, basti pensare al Magistero sociale, da Leone XIII in poi. Ad ogni modo, ritengo che avrebbe offerto un ottimo servizio se, in quella sede, avesse invece fatto esplicito riferimento alla tradizione liberale; evitando, oltretutto, di toccare non pochi nervi scoperti tra i rappresentanti delle popolazioni dell’Europa dell’Est.
Il tema del rapporto tra tradizione liberale e difesa dei più deboli è uno dei più dibattuti e sul quale da sempre si confrontano gli schieramenti politici ed è su questo punto che ruota la questione di un reddito minimo garantito. È opinione piuttosto condivisa presso gli ambienti culturali conservatori, tanto di destra quanto di sinistra, che i sostenitori dell’economia di mercato siano sostanzialmente insensibili alle sofferenze e alle necessità dei più deboli e dei più poveri, giungendo alla conclusione che, sebbene in misura minima, nelle economie di mercato lo Stato è necessario, quanto meno per garantire gli interessi dei più forti e dei più ricchi; in definitiva, alla Stato verrebbe assegnata la funzione di far vincere i soliti noti.
Se questa è l’accusa che normalmente viene rivolta ai sostenitori dell’economia di mercato dai conservatori di ogni di tipo e ideale, credo sia interessante riflettere sulle parole di un padre del liberalismo contemporaneo, il quale si sofferma proprio sul ruolo dello Stato in prospettiva liberale, nonché sulla difesa dei più deboli, di coloro che per una miriade di ragioni non sono nelle condizioni di poter godere di pari opportunità e che non potrebbero mai prendere parte ai processi di mercato. Sono le riflessioni di uno dei più illustri rappresentanti del liberalismo odierno, vale a dire di Friedrich A. von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974.
In Legge, legislazione e libertà, Hayek sostiene che molte delle comodità capaci di rendere tollerabile la vita in una città moderna vengono fornite dal settore pubblico: “La maggior parte delle strade […], la fissazione degli indici di misura, e molti altri tipi di informazione che vanno dai registri catastali, mappe e statistiche, ai controlli di qualità di alcuni beni e servizi”.
È chiaro, inoltre, che l’esigere il rispetto della legge, la difesa dai nemici esterni, il campo delle relazioni estere sono attività dello Stato. Ebbene, per Hayek, ci sarebbe qualcosa che va decisamente otre tutto ciò, dal momento che “pochi metteranno in dubbio che soltanto questa organizzazione [dotata di poteri coercitivi: lo Stato] può occuparsi delle calamità naturali quali uragani, alluvioni, terremoti, epidemie e così via, e realizzare misure atte a prevenire o rimediare ad essi”. Per questa ragione, appare del tutto evidente “che il governo controlli dei mezzi materiali e sia sostanzialmente libero di usarli a propria discrezione”. A questo punto della riflessione, Hayek prende in considerazione un’altra classe di rischi, nei confronti della quale è necessario che lo Stato presti grande attenzione. Le considerazioni dell’economista austriaco assumo una decisiva importanza e sembrerebbero smentire una serie di luoghi comuni che, a detta del filosofo Dario Antiseri, stanno a dimostrare quanto siano poco documentate alcune interpretazioni del pensiero di Hayek: “vi è ancora – scrive Hayek – tutta un’altra classe di rischi rispetto ai quali è stata riconosciuta solo recentemente la necessità di azioni governative, dovuta al fatto che come risultato della dissoluzione dei legami della comunità locale e degli sviluppi di una società aperta e mobile, un numero crescente di persone non è più strettamente legato a gruppi particolari su cui contare in caso di disgrazia. Si tratta del problema di chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un’economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani – cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli, ma che una società la quale abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare”.
Una prima considerazione che possiamo svolgere dopo aver letto il brano di Hayek riguarda il fatto che solo una società aperta e dinamica, che abbia abbracciato la “logica di mercato”, può permettersi il conseguimento di fini umanitari, e lo può fare in quanto è relativamente ricca, e può farlo tramite operazioni che Hayek definisce fuori mercato e non con manovre che siano correzioni del mercato ovvero “interferenze” sul medesimo. Hayek non si limita a prescrivere un ruolo attivo dello Stato, ma ci dice anche la ragione: “Assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l’individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato”. Sottolinea, inoltre, che “un sistema che invoglia a lasciare la relativa sicurezza goduta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmente produrrà forti scontenti e reazioni violente, quando coloro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senza propria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capacità di guadagnarsi da vivere”.
Sulla stessa scia di Hayek si collocano altri tre liberali: Luigi Einaudi, Luigi Sturzo e Wilhelm Röpke. In particolare, Einaudi, come ci ricorda Enzo Di Nuoscio, individua tre compiti fondamentali a cui deve assolvere uno Stato liberale: a) fissare le regole che, da un lato, impediscano all’economia di mercato di degenerare e, dall’altro, le consentano di produrre efficienza economica e solidarietà sociale, nonché di essere un baluardo per la democrazia politica; b) garantire un livello minimo di vita a tutti i cittadini; c) assicurare il rispetto della legge, al fine di proteggere e promuovere le libertà individuali e di garantire un idoneo habitat giuridico-istituzionale per l’economia di mercato.
Con riferimento alle politiche attive contro la povertà, Einaudi, in piena sintonia con Wilhelm Röpke, nelle sue Lezioni di politica sociale, riteneva che la “legislazione sociale” di uno Stato liberale deve avere come obiettivo strategico quello di “avvicinare, entro i limiti del possibile i punti di partenza” degli individui, affermando “il principio generale che in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario per la vita”. Si badi bene, un minimo che non induca i singoli all’ozio, che “non sia un punto di arrivo ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini”.
Le posizioni di Hayek, di Einaudi, ma anche di Sturzo e di Röpke, stanno a dimostrare che la prospettiva liberale può essere profondamente solidale e, a differenza del solidarismo statalista, avrebbero il merito di non cadere nel trade-off “giustizia-libertà”, in quanto tutte fanno perno sul principio liberale e cattolico della sussidiarietà come leva per promuovere la giustizia. Si tratta di una nozione di giustizia sociale fondata sulla responsabilità e sulla libertà, nonché sulla capacità delle singole persone di dar vita ad una complessa rete di corpi intermedi, pronti ad intervenire per promuovere e difendere materialmente e sostanzialmente la dignità della persona umana. Alla Stato spetta il compito di vigilare che ciascuno adempia ai propri compiti e di intervenire in via sussidiaria e temporanea, affinché chi oggi versa nel bisogno, in forza dell’aiuto ricevuto, domani possa essere a sua volta attivo protagonista della solidarietà sociale.
In definitiva, senza scomodare un riottoso Marx che, obiettivamente, mal digeriva soluzioni che avessero protratto il sistema capitalistico, piuttosto che abbreviare le doglie del parto della rivuluzione, le prospettive di Hayek e di Einaudi qui brevemente presentate, pur nelle differenze, assumono tutte un comune principio liberale e che finisce per accomunare l’esperienza italiana, tedesca ed anglosassone: lì dove c’è miseria, la libertà non ha cittadinanza e dove la libertà non può esprimersi, la miseria non trova ostacoli.