Il «fenomeno Limonov», scoppiato con il clamoroso successo della biografia scritta da Emmanuel Carrère e pubblicata in Italia da Adelphi, che da settembre ha già avuto quattro edizioni, è un test interessante. Interessante innanzitutto per misurare la diversità di sguardo sulla Russia e sui mutamenti in atto esistente tra l’Occidente e chi la vive dall’interno. E forse ancor di più per misurare la miopia con cui guardiamo alla possibilità di un cambiamento in casa nostra.



Non è un problema di criterio etico-morale, come asserisce l’autore: «Eravamo abituati a dissidenti sovietici barbuti e seri, malvestiti, che abitavano in angusti appartamenti zeppi di libri e di icone dove trascorrevano nottate intere a parlare di come l’ortodossia avrebbe salvato il mondo – e ci trovavamo davanti un tipo sexy, smaliziato, spiritoso, che sembrava al contempo un marinaio in libera uscita e una rockstar». Con tutta la sua verve polemica e scandalistica di personaggio che ha come prima regola quella di stupire e spiazzare l’interlocutore, dalle dichiarazioni insultanti su Gorbacev, Putin o Solženicyn, all’ostentato disprezzo per scrittori e poeti come Michail Bulgakov o Iosif Brodskij, fino agli episodi più scabrosi di sesso raccontati nel libro, Eduard Limonov è in realtà un caso disperatamente «vecchio», scaduto, integrato com’è nella routine postmoderna. Tutto sommato, l’avversario ideale per il regime in Russia, che può così mostrare di avere un’opposizione, con la tranquilla sicurezza che un seguito di massa questa opposizione non l’avrà mai. Ma anche una comoda figura di «rivoluzionario» fatta apposta per esorcizzare ogni desiderio reale di cambiamento agli occhi dell’Occidente.



In effetti, nell’ultimo decennio le iniziative regolarmente organizzate dai cosiddetti «in disaccordo», i radicali «nazional-bolscevichi» di Eduard Limonov e altri oppositori del regime di tendenze rivoluzionarie, hanno sempre raccolto al massimo dalle 500 alle 1500 persone. Tra l’indifferenza generale i loro leader venivano pressoché mensilmente fermati o arrestati, perché ogni 31 del mese organizzavano in una delle piazze principali di Mosca, sotto il monumento a Majakovskij, delle manifestazioni in difesa dell’art. 31 della Costituzione («I cittadini della Federazione Russa hanno il diritto di riunirsi pacificamente, senz’armi, di tenere riunioni, comizi e dimostrazioni, cortei e picchetti»), e tra l’indifferenza generale ne uscivano di lì a qualche ora o qualche giorno. Come si spiega, in questo contesto, quello che si è messo in moto a partire dal dicembre 2011, quando improvvisamente le cifre di chi protestava in piazza sono salite a decina di migliaia, fino a superare addirittura, in qualche caso, i 100mila?



La novità di cui in Occidente non si è accorto quasi nessuno, in quest’ultimo anno, è una categoria culturale, innescata magari da un iniziale impulso politico (la gente, nella gran massa giovani ma anche adulti, che si era radunata il 5 dicembre protestava contro i brogli delle elezioni parlamentari). Ma se la formula «partito di ladri e farabutti», tempestivamente suggerita all’opinione pubblica dal popolare blogger avvocato Aleksej Naval’nyj, era volta a indirizzare la crescente irritazione non verso il potere astrattamente inteso, ma verso le strutture portanti del partito – avrebbe dovuto cioè innescare un meccanismo di smantellamento del sistema dal basso, secondo il metodo delle rivoluzioni di velluto in Ucraina, Georgia, in parte nei Paesi arabi (tanto più che al raggiungimento di questo scopo si sono alleati in azioni comuni nazionalisti di estrema destra, liberali, centristi, socialisti e nuovi comunisti), il meccanismo non ha funzionato.

In realtà i leader della protesta, che hanno scommesso sulla politica come tale (in primo luogo Eduard Limonov, che da subito aveva invitato a far esplodere subito la situazione), stavolta hanno perso senza remissione. E questo perché, per coloro che scendevano in strada, e oggi stanno trovando gradualmente altri modi di impegno sociale, gli slogan politici erano meno importanti della proposizione di un criterio culturale, di un soggetto personale e collettivo che non si lascia identificare con un gruppo politico. 

Una novità qualitativa, che forse ha da dire qualcosa anche allo scetticismo e alla demotivazione con cui stiamo andando incontro all’attuale stagione politica: una novità che consiste nel formarsi di una posizione di responsabilità personale, nell’affacciarsi di una nuova generazione dotata di una coscienza civile. Come ha fatto osservare il giornalista Aleksandr Archangel’skij, il successo principale del nuovo movimento è stato non il rovesciamento di un sistema odioso, ma – ad esempio – il fenomeno di solidarietà di massa verificatosi nei confronti delle vittime di una gravissima inondazione nell’area del mar Nero, l’estate scorsa, dov’è stato evidente che il generoso movimento di volontari dispiegatosi in queste circostanze era strettamente collegato all’esperienza di solidarietà civile fatta durante le proteste: «Siamo di fronte a una potenziale rivoluzione culturale, all’inizio di un movimento tettonico nelle relazioni fra persona e Stato, fra l’iniziativa del cittadino e il politico di professione, fra individuo e collettivo», ha concluso Archangel’skij. E nessun Limonov, su questo, ha qualcosa da dire.