Nel 1840 Fëdor Dostoevskij (1821-1881) scriveva che Victor Hugo (1802-1885) «come lirico, ha un carattere puramente angelico, un indirizzo poetico fanciullescamente cristiano», tanto che «nessuno in ciò gli si può paragonare, né Schiller (per quanto cristiano sia il poeta Schiller), né Shakespeare come lirico […], né Byron, né Puškin».



Di scrittori cristiani ce ne sono stati tanti in epoca contemporanea e riflettere sul loro cristianesimo non è affare secondario, come ad esempio succede ormai da oltre mezzo secolo a proposito di Tolkien (1892-1973), la cui weltanschauungcattolica traspare anche dalla versione cinematografica del suo Signore degli Anelli e, adesso, de Lo Hobbit



Ho già scritto, su queste pagine, a proposito del rapporto tra letteratura e cristianesimo (con particolare riferimento proprio al gruppo oxfordiano degli “Inklings” al quale apparteneva Tolkien) e credo sia utile farlo anche a proposito di Victor Hugo, di cui è recentemente uscita una raccolta di nove discorsi politici, pronunciati prima all’Assemblea nazionale costituente e poi all’Assemblea nazionale legislativa francese nel biennio 1848-1850 (Victor Hugo, Discorsi contro, Endemunde, Milano 2012).

Victor Hugo pubblicò I Miserabili nel 1862 e si può quindi dire che il romanzo che, assieme a Notre-Dame de Paris (1831), lo rese celebre vide la luce quando le coordinate fondamentali della sua carriera politica si erano ormai definite: nel dicembre 1851, infatti, Hugo sceglieva di lasciare la Francia, di fronte al colpo di stato del Presidente della Repubblica in carica, Luigi Napoleone Bonaparte – 1808-1873 –, che aveva sciolto l’Assemblea nazionale legislativa facendosi proclamare Presidente per dieci anni con un plebiscito; Hugo, quindi, non avrebbe assistito in patria alla successiva proclamazione dello stesso Bonaparte Imperatore dei francesi col nome di Napoleone III avvenuta, sempre tramite plebiscito, esattamente l’anno successivo.  



Rientrato a Parigi il 5 settembre 1870, tre giorni dopo la sconfitta francese di Sedan ad opera dei prussiani, la caduta di Napoleone III e la proclamazione della Terza Repubblica, Hugo venne eletto, nel febbraio 1871, nelle file dei radicali dell’estrema sinistra in un’Assemblea nazionale repubblicana a maggioranza monarchica; tre mesi dopo, fu proprio l’Assemblea nazionale a ordinare al generale Patrice de Mac-Mahon (1808-1893) di porre fine manu militari al Governo provvisorio della Comune di Parigi, instaurato nel marzo anche come reazione al trattato di pace “imposto” dai prussiani, contro il quale anche Hugo si era schierato.

Dostoevskij scriveva quelle parole elogiative nei confronti della lirica di Hugo cinque anni prima che l’itinerario politico del grande romanziere francese avesse inizio. Nominato Pari di Francia nel 1845 dal re Luigi Filippo (1773-1850), Hugo nel 1848 veniva eletto all’Assemblea costituente repubblicana nelle file dei conservatori, non tardando però, cinque anni dopo, ad attaccare il conservatorismo attraverso la critica alla concezione cattolica della libertà di insegnamento e facendo quindi proprie le battaglie della sinistra: di fronte al progetto di legge sull’educazione proposto dal politico cattolico Frédéric-Alfred-Pierre Falloux (1811-1886) che stabiliva il principio della libertà d’insegnamento sia di primo sia di secondo grado favorendo l’insegnamento religioso, Hugo sosteneva che la libertà di insegnamento poteva realizzarsi esclusivamente «sotto il controllo dello Stato» (p. 16).

C’era del cristianesimo in Hugo, certo, ma si trattava di un cristianesimo che, secondo lui, consisteva esclusivamente nell’«alzare tutti gli sguardi verso il cielo», per «rivolgere tutte le attese verso una vita futura» (p. 17), dove sarà fatta quella giustizia che manca sulla terra; per alleviare la sofferenza dei poveri, egli pensava che fosse necessaria la visione religiosa di una vita eterna nella quale non ci sarebbe stata sofferenza, ma che, a livello politico, gli strumenti umani per avvicinarsi ad essa fossero quelli del radicalismo di sinistra e non quelli del cosiddetto “partito clericale” che, a suo giudizio, avrebbe frainteso la vera missione della Chiesa preferendo sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), «il nemico di Gesù» (p. 21) a san Vincenzo de’ Paoli (1581-1660) «che raccoglie il bambino abbandonato» (p. 21). 

È difficile non riconoscere temi e valori cristiani nei grandi romanzi di Hugo, ma (anche se la storia non si fa con i “se”) credo di poter dire che il Dostoevskij “maturo” del ventennio 1860-1880 (Delitto e Castigo, L’Idiota, I Demoni, I Fratelli Karamazov) avrebbe forse modificato quell’elogio cristiano di Hugo del 1840, se avesse conosciuto le sue idee politiche del 1850 in merito al rapporto tra educazione, Stato e Chiesa. 

Anche Dostoevskij, come Hugo, dovette andare in esilio a causa delle sue idee politiche di sapore socialista, ma il suo esilio fu decisamente meno soft rispetto alla tranquilla attività di scrittore di romanzi alla quale Hugo, di fronte al colpo di stato di Luigi Napoleone Bonaparte del dicembre 1851, volontariamente si consegnò per circa un ventennio prima a Bruxelles, poi nelle isole britanniche di Jersey e di Guernsey nel Canale della Manica. Dostoevskij, invece, condannato a morte nel 1849 e poi (a seguito di commutazione di pena) deportato ai lavori forzati in Siberia dal 1850 al 1854 per decisione del regime zarista che lo aveva fatto arrestare con l’accusa di propaganda rivoluzionaria, maturò, in quegli anni, una triplice convinzione: Cristo è l’unico vero salvatore della miseria umana, ha poco a che vedere con il socialismo utopistico e, per questi due motivi, l’unica via al principio popolare consiste nel recupero della tradizione religiosa russa.