Argentina 1960. Una desolata strada di campagna vicino a Buenos Aires: una macchina arriva veloce, si accosta a un passante e lo rapisce. La scena d’azione, brevissima, apre un film che, invece, di azione ha pochissimo. Il che non vuole affatto dire che non sia coinvolgente. Le immagini e l’azione ritornano alla fine del film, ma, qui, non è il caso di anticipare troppo. Il “rapito” è Adolf Eichmann, ufficiale delle SS e responsabile dell’apparato logistico del sistema nazista dei campi di sterminio. Dall’America latina Eichmann è tradotto in Israele, per esservi processato. 



Sono scene da Hannah Arendt, l’ultimo film della regista Margarethe von Trotta, nota al pubblico italiano per classici come Anni di piombo e L’onore perduto di Catharina Blum. Margarethe Von Trotta è stata a lungo un’icona del cinema progressista tedesco,  e come tale è soprattutto conosciuta in Italia. Le ultime sue opere, peraltro, cercano di muoversi “al di là” degli schemi ideologici. Così alla “monografia” su Rosa Luxemburg è seguita quella su Ildegarda di Bingen, la santa più colta e inquieta del medioevo germanico. Ora è la volta di un’altra grande figura femminile, con un film che si presenta anche più difficile degli altri due. 



Non è facile fare un film su una filosofa: ci vuole una bravissima Barbara Sukowa, che interpreta magistralmente il ruolo di Hannah Arendt; e ci vogliono grandi capacità tecniche, la consapevolezza che attraverso il frammento si può restituire l’intuizione del tutto e, immancabilmente, anche un pizzico di ironia. Il tutto è quello di una donna che per tutta la vita ha cercato. Il frammento è quello del processo ad Eichmann, che ebbe luogo in Israele nel 1961 e fu narrato ai lettori del New Yorker da un inviato speciale di eccezione, la filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt. Le corrispondenze da Tel Aviv, pubblicate sul magazine americano fecero scalpore. 



Eichmann vi si rivelava non come il “mostro” in cui tutti avrebbero voluto identificarlo, ma come un mediocre impiegato del male, un borghesuccio che produceva decine di migliaia di morti come un impiegato di ministero fa passare decine di migliaia di carte, con cura, scrupolo e poca passione. Eichmann tutto era, fuorché anormale.  Quel che diceva Eichmann nel corso delle deposizioni (che nel film sono, in parte, riprese da filmati d’epoca) e il modo in cui lo diceva, tracciava il quadro di una persona che sarebbe potuta essere chiunque: un impiegato del male che «nemmeno riusciva a immaginare che cosa stesse facendo». La domanda che domina i dialoghi sul «male» di Eichmann è tutta qui: come si può riconoscere il crimine se si è sino in fondo dentro il crimine? Come si può riconoscere il male, se esso è l’unico orizzonte in cui ci si muove?

La prima a esserne sconvolta fu la stessa Arendt: sul banco degli imputati c’era un uomo qualunque, quasi ridicolo nella sua goffaggine, per nulla imbevuto di ideologismi efferati e fanatici. È quella che la Arendt chiamò allora, con un’espressione che avrebbe avuto successo, la “banalità del male”. Ci si può assuefare al silenzio, al nulla, al male. Si può mettere a tacere la voce interiore della coscienza, fino a negarla. Hitler usava dire che la coscienza è un’invenzione degli Ebrei. Un modo come un altro per annientarla. Il mostro, però, appare meno mostro di quel che sembra. Il male solo di rado passa attraverso dei mostri orrendi. Il mostro vero è dentro la mediocrità, l’abitudine, l’incapacità di mettersi in discussione. 

All’epoca questa scoperta suscitò reazioni durissime, che il film di Margarethe Von Trotta mostra con somma efficacia. La coscienza collettiva di un Occidente pavido e superficiale si sarebbe sentita rassicurata dal percepire Eichmann come “un’eccezione”.  Nell’efficiente gestione della logistica dello sterminio e nel ruolo dei Comitati Ebraici, così come emergevano dalle testimonianze processuali, la Arendt vide confermata una delle tesi del suo volume sui totalitarismi: le vittime, per mezzo dei loro carnefici e delle loro azioni, sono costrette a divenire in qualche modo collaboratrici della loro stessa schiavitù. 

I sopravvissuti ai campi di sterminio, per ragioni psicologicamente comprensibili, pretendevano che Eichmann apparisse come un fanatico senza scrupoli. Molti di loro si sentirono delusi dai reportage della Arendt. Qualcuno ebbe reazioni di profonda ostilità. La Arendt ricevette insulti, minacce, accuse, di fronte alle quali non arretrò minimamente. Si ebbero persino degli interventi del Mossad, i potenti servizi segreti di Israele, che cercarono di far desistere la Arendt dal pubblicare in volume la raccolta dei suoi articoli. Da Martin Heidegger, suo maestro (e amante) di un tempo, aveva imparato sin troppo bene quanto il pensiero sia anche solitudine. La sua “ebraicità” non le permetteva, però, di tradurre questa solitudine in isolamento. 

Ridire la verità, ridire il proprio travaglio interiore alla ricerca della verità, diveniva quindi un obbligo essenziale, una responsabilità storica imprescindibile perché quel che era accaduto non accadesse mai più. Auschwitz non era stata un’eccezione, era una possibilità da cui guardarsi costantemente, anche correndo il rischio di esporsi davanti ai benpensanti, magari mettendo in crisi la comoda rilettura retorica dell’olocausto e dell’antisemitismo. 

 È il rischio a cui si espone la Arendt nei suoi resoconti al New Yorker. Ed è anche il rischio a cui si espone Margarethe Von Trotta con questo film, che unisce riprese d’epoca e dialoghi intensissimi, una fotografia che parla non meno delle parole, dentro il genere cinematografico del “processo”, ormai consolidato e uscito dalla nicchia specialistica di cui rischiava di rimanere prigioniero. La regista, peraltro, non mira affatto a fare un film “giuridico”. 

Si tratta senz’altro di un film “di processo”, ma con l’ambizione di presentare al pubblico un altro tipo di processo, quello del pensiero. Il pensare lascia soli, davanti agli stereotipi dell’opinione dominante e davanti all’ignavia dei più.  Per dare ai suoi spettatori un’idea di questa solitudine abissale, Margarethe Von Trotta, insieme con la sua sceneggiatrice Pam Katz, fa ampio ricorso ai dialoghi: Hannah Arendt, anzitutto, suo marito e i suoi amici più stretti, la cerchia di intellettuali che facevano capo al New Yorker e che, in gran parte, erano esuli tedeschi della Germania nazista, la segretaria Lotte Köhler (interpretata da Julia Jentsch) e, in Israele, Kurt Blumenfeld. Si parla del processo e dei suoi limiti, la discussione si accende (in inglese e in tedesco nella versione originale). Poi ci sono le scene ambientate in Università, con gli studenti che interagiscono: tra i pochi a comprendere una Hannah Arendt più scomoda che mai. Il film è stato presentato al Toronto International Film festival l’11 settembre 2012 ed è uscito nelle sale tedesche l’8 gennaio 2013.  

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