Nel 442 a.C. furono eletti ad Atene i dieci strateghi, l’unica magistratura che nel sistema democratico della città comportasse votazione e non sorteggio, in quanto richiedeva non solo dedizione ma particolare competenza. Fra gli eletti ci fu il poeta tragico Sofocle, e i suoi biografi raccontano che a determinare la scelta fu la recente rappresentazione di una sua tragedia ispirata al mito di Antigone.
Per meglio capire il rapporto fra i due fatti occorre ricordare che il teatro ateniese coinvolgeva l’intera cittadinanza durante le feste primaverili in onore del dio Dioniso, e che agli autori di tragedie e commedie veniva richiesto, come dice Aristofane, di essere per gli adulti ciò che è il maestro per i ragazzi. Dunque l’apprezzamento dei concittadini per Sofocle non si limitava ad una valutazione di grandezza poetica, ma rifletteva l’accettazione di quanto era stato loro comunicato attraverso la scelta e la trattazione dell’antico mito.
Antigone appartiene alla famiglia dei Labdacidi, una famiglia dalle vicende terribili, a cui già Eschilo aveva rivolto il suo interesse e la sua riflessione indagando sul rapporto fra destino e libertà, colpa d’origine e giustizia individuale. Il tema sarà ripreso da Sofocle anni dopo nella sua tragedia più celebre e più pessimista, l’Edipo Re, e concluso durante l’estrema vecchiaia con un recupero di fiducia nella volontà buona degli dèi nell’Edipo a Colono: tragedie composte entrambe durante la guerra del Peloponneso, le cui vicende, legate anche ad un progressivo degenerarsi del clima politico interno, ponevano altre drammatiche domande.
Diversa la situazione degli anni dell’Antigone: Atene era fiorente in politica interna ed estera, nel pieno di quel cinquantennio (pentecontaetìa) seguito alle guerre persiane che la vedeva leader della Grecia, solidamente appoggiata sulla personalità di Pericle. La questione che si apriva era allora come gestire la città, con che criterio di giudizio valutare le leggi, in che rapporto porre le regole della politica e le verità ultime e ineludibili.
Che cosa sceglie dunque di cantare Sofocle? A che punto del lungo e complesso mito dei Labdacidi si inserisce nel 442? La tragedia inizia nella notte che segue la liberazione di Tebe dall’assedio dei sette eserciti argivi; i capi nemici sono morti, gli invasori in fuga, la popolazione salva da strage, schiavitù e violenza. Ma i due figli del re morto in esilio, Edipo, hanno militato su fronti opposti e si sono uccisi a vicenda. Non ci sono più eredi maschi in linea diretta; frettolosamente la città assegna il potere a Creonte, nobile tebano legato da parentela con la casa regnante.
Il nuovo sovrano come prima legge stabilisce che Eteocle, morto nella difesa della città, abbia solenni onori funebri, mentre il fratello Polinice, che ha combattuto con gli assedianti, resti insepolto, preda di cani e uccelli da preda.
Tutta la tradizione antica è opposta ad una simile decisione. L’inimicizia cessa con la morte, viene continuamente ribadito; ogni guerra, ogni battaglia, conosce tregue per raccogliere i morti e rendere loro onore; nell’Odissea Ulisse proibisce alla fedele Euriclea di esultare davanti ai corpi dei nemici uccisi. La più famosa eccezione mitica, lo scempio del cadavere di Ettore da parte di Achille, è vista con orrore e riprovazione, suscita l’intervento degli dèi che riportano Achille all’obbedienza e al rispetto.
Proprio agli dèi, alla loro legge iscritta nel cuore umano, aderisce Antigone, sorella sia di Eteocle sia di Polinice, nella sua opposizione alla legge di Creonte. Ma non è una scelta condivisa. L’altra sorella, Ismene, le rimprovera di creare nuovo dolore, di opporsi all’autorità, di violare la sua condizione femminile; il Coro di anziani tebani la considera presuntuosa, indocile; il re, che pure vorrebbe salvarla perché gli è parente e fidanzata di suo figlio, l’accusa di offendere Eteocle, il fratello “giusto”, di fraintendere il volere degli dèi, di disobbedire alle leggi degli uomini. Solo il fidanzato Emone la difende, accusando il padre di dispotismo; ma c’è in lui l’ansia di non perdere la sposa, più che la condivisione delle sue ragioni: giustamente il Coro vede l’azione di Amore nella concitata arringa del giovane.
Antigone va a morire per difendere la legge degli dèi e per rispetto di chi l’attende nell’al di là. Benché sia accusata di preferire i morti ai vivi, di “infiammarsi per le cose fredde” o, come è stato arditamente tradotto, “innamorarsi dei morti”, il suo dialogo di addio col Coro ci dice di un attaccamento alla vita, alle nozze imminenti, ad un futuro sperato, che contraddice tali giudizi. Non è rinunciataria, né fredda verso vita e amore; neppure incapace di vedere le ragioni della politica perché legata al ristretto ambito familiare, come è stato più volte detto anche sull’onda di una certa lettura filosofica.
Le tante Antigoni successive, in particolare quella di Anouilh, hanno banalizzato il personaggio, finendo per togliergli la sua caratteristica essenziale, la posizione profetica verso gli dèi e le leggi eterne: senza di questa le sue ragioni si riducono, si stemperano, lasciando che emerga la Realpolitik di Creonte, il valore dato al “bene dello Stato” cui sacrificare leggi divine e princìpi umani.