È forse impossibile definire la figura di Giuseppe Dossetti, probabilmente è più facile raccontarne la storia, ripercorrendo lo sviluppo delle sue convinzioni, del suo impegno politico, della sua missione cristiana. Il «professorino» dell’Università Cattolica che nel ’46 veniva eletto alla Costituente e poi nominato membro della Commissione dei 75 incaricata di scrivere la Costituzione, era nato a Genova nel 1913. Antifascista irriducibile – anche se, come riportato di recente da Paolo Mieli, Paolo Acanfora ha rinvenuto un certificato di iscrizione al Pnf quando fascisti era assai difficile non esserlo -, si laureò, allievo di Jemolo, in tempi rapidissimi, conobbe Gemelli e Lazzati, partecipò alla resistenza, anche se non volle mai portare un’arma, diventando presidente del Cln di Reggio Emilia. Nel ’45 divenne vicesegretario della Dc, nel ’56 prese i voti religiosi. Un cambiamento che per chiunque altro avrebbe segnato una discontinuità; non per Dossetti, che trasse dalla vita religiosa nuovi motivi di ispirazione cristiana e, per ciò stesso, anche di ispirazione politica. Fu al Concilio Vaticano II come esperto del cardinal Lercaro, e anche in questo caso lasciò il segno, visto che alla sua lettura del Concilio si sono ispirati storici come Giuseppe Alberigo e Paolo Prodi e, dopo di loro, Alberto Melloni. Nell’anno del centenario della sua nascita (1913-1996), Paolo Pombeni ha da poco pubblicato Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano (Il Mulino, 2012). L’autore ne ha parlato con ilsussidiario.net.



Professore, quali sono i problemi di interpretazione che pone la controversa figura di Dossetti?
La cosa più difficile è inquadrare la tipologia del personaggio, che non è né quella di un politico, né semplicemente quella di un utopista. Lo definirei un carismatico religioso alla tormentata ricerca di un significato della storia.



Né un politico né un utopista, ha detto. Perché non invece sia l’uno che l’altro?
Dossetti non è stato un utopista perché non aveva nessun tipo di aspettativa riguardante l’instaurazione di un qualsiasi «regno» sulla terra. In questo, al contrario, era un realista e un realista anche molto spigoloso. La sua preoccupazione, come si suol dire, è sempre stata quella di fare i conti con la condizione presente, qualunque essa fosse. La sua «politica» si identifica con un profondo senso del dovere, quello di servire alla storia nella quale i credenti sono coinvolti. Ma non al modo del sognatore e nemmeno del profeta disarmato.



Quanto e come incide il clima politico e culturale degli anni Venti e Trenta nella formazione di Dossetti?
In modo decisivo. Allora c’era da un lato la sensazione di essere seduti su un mondo che si stava sgretolando, dall’altro l’aspettativa dettata dall’urgenza profonda di creare qualcosa di completamente nuovo. La sua caratteristica era quella di avere antenne sensibilissime per quelli che, cono un termine posteriore, si sarebbero chiamati «segni dei tempi».

Lei ha usato la parola carisma. Come definirebbe il «carisma» di Dossetti?
Ha due facce. Una è il dono di leggere nelle cose ciò che non tutti vedono, e di tradurre questa sua capacità in una azione, che nei vari tempi della sua vita ha risvolti diversi; a volte è di tipo religioso, a volte di tipo politico. L’altra è la capacità di suscitare intorno a sé forze che con il suo carisma si identificano, contribuendo al raggiungimento dei fini che la visione suggerisce. 

Cosa ha a che fare questo carisma con quello che è stato chiamato l’integrismo di Dossetti?
Io sono tra coloro che pensano che l’integrismo non esista. È integrista chi pensa di poter tramutare automaticamente una visione religiosa o ideologica in un’azione in quanto tale prescrittiva e unica. Questo in Dossetti non c’è mai; in lui il discorso è sempre personale, e come tale contiene in sé questa istanza, ma non pensa che essa debba per ciò stesso tradursi nella società. Se invece per integrismo intendiamo il prendere molto sul serio il compito che una personalità ritiene esserle affidato dalla storia o dalla coscienza, questo è tipico di di tutti i carismatici che − come diceva Max Weber − hanno un dàimon che li porta a non trascurare mai ciò che ritengono la loro missione.

C’è un pensiero politico di Dossetti?
Ebbe delle intuizioni, anche prese da varie fonti, e rielaborate in modo personale, ma non c’è una teoria politica «dossettiana». Diciamo che rimane un suo personale approccio alla politica filtrato attraverso la sua interpretazione della fede e della realtà. Come forse non tutti sanno, Dossetti ha scritto pochissimo, ma predicato molto. Anche questo è atipico rispetto al suo tempo, un periodo in cui la trasmissione delle idee avveniva quasi totalmente per iscritto. E quello che di lui è rimasto, è costituito per tre quarti da trascrizioni di prediche e conferenze.

Augusto Del Noce notava come la visione dossettiana della storia, e in essa della storia della Chiesa, fosse condizionata dalla dialettica, tipicamente moderna, tra restaurazione e riforma. Lei che ne pensa?
È stato lo stesso Dossetti a mettere nero su bianco questa idea. La sua prima e più importante chiave interpretativa per capire la storia è il fatto che alle grandi trasformazioni storiche è sempre corrisposto, e deve corrispondere, una grande trasformazione nella Chiesa. Così è stato dall’epoca imperiale romana al Concilio di Trento, fino all’ultima grande trasformazione in ordine di tempo ossia il grande cambiamento determinatosi con il secondo conflitto mondiale. Quindi ad un cmbiamento nella cultura generale deve corrispondere una trasformazione nella cultura della Chiesa, che, essendo un messaggio − il Vangelo − rivolto agli uomini, è con quel tipo di cultura che deve parlare.

Dunque esiste la possibilità che ci sia nella Chiesa una non perfetta adeguazione ai tempi che stiamo vivendo.
Sì, ma non nel senso che la Chiesa deve come si suol dire «andar dietro» a quello che pensano i tempi; bensì nel fatto che bisogna accogliere le sfide alle quali l’umanità tenta di rispondere in un determinato frangente storico, e ad esse la Chiesa è chiamata a dare una sua risposta. Che non può e non deve essere, necesariamente, la risposta del passato. Qui occorre precisare che Dossetti è un uomo fortemente legato alla tradizione; ritengo anzi che la cosa più lontana in assoluto dal suo pensiero fosse il modernismo. C’è in lui però l’idea che ad ogni sfida nuova la Chiesa deve ripensare il portato della verità; conseguenza del fatto che la rivelazione non è avvenuta una volta per tutte ma continua ad accadere nella storia. La storia presenta continuamente sfide nuove, ma esse rappresentano a loro volta un pro-vocazione per la fede, chiamata ad affrontarle con la rivelazione di sempre.

La vita di Dossetti è segnata da svariate contrapposizioni. Vediamone alcune: Dossetti e il fascismo.
La sua vita ha attraversato il fascismo e ne è stata seganta come è avvenuto per molti suoi coetanei. È stato un passaggio estrinseco, dopo il quale il giovane Dossetti è venuto elaborando il suo antifascismo radicale, che si manifesta infine nell’adesione alla resistenza. Per Dossetti il fascismo è un male in quanto risposta sbagliata alle sfide della storia.

Dossetti e Togliatti.
In Dossetti ci fu sempre una estraneità radicale al comunismo come «rivelazione» laica; tuttavia quella fede politica fu da lui sempre tenuta in sera considerazione per la sua capacità di suscitare negli aderenti quell’abnegazione che tutti conosciamo. Di Togliatti stimava l’intelligenza e la dedizione alla causa. Ma non tutti sanno che Dossetti rifiutò di prendere il posto di don De Luca come tramite non ufficiale nel rapporto tra il Vaticano e il leader del Pci.

Con Togliatti Dossetti raggiunse l’accordo in Assemblea costituente; poi però il Pci lo avversò aspramente. Perché?
L’accordo era figlio della cultura degli anni Trenta, laddove da molteplici ispirazioni si era arrivati a un giudizio unanime sul fatto che da un lato l’umanità era caduta nel disastro dei totalitarismi, e dall’altro occorreva un mondo rinnovato. La rottura seguente fu dovuta al fatto che Dossetti vedeva molta, troppa strumentalità nell’azione politica dei comunisti; anche se questo valeva pure per la Dc. Si tenga conto che questa percezione era acuita in Dossetti dal non essersi egli mai attenuto ad una logica meramente politica. Nei comunisti, invece, l’ostilità derivò dal constatare che alla convergenza di posizioni da parte di Dossetti non aveva fatto seguito in lui una «fedeltà» fino in fondo. Rimasero delusi e cambiarono opinione.

Dossetti e De Gasperi.
Due persone che facevano «mestieri» diversi. Mentre il problema per Dossetti era testimoniare la presenza di una verità superiore all’interno dell’agire umano, il problema di De Gasperi era quello di essere fino in fondo un politico, cioè un uomo capace di governo e capace di esserlo da cattolico.

Una visione più laica, dunque.
Ma la laicità non era in discussione per nessuno dei due. Per dirla con Max Weber, in Dossetti prevaleva l’etica dell’identità, essendo la sua preoccupazione principale di testimoniare la purezza della presenza; in De Gasperi prevaleva invece l’etica della responsabilità, ovvero l’esercizio del potere, concepito nel senso positivo del termine, sapendo però che la perfezione non si può raggiungere. La loro dialettica va ricondotta a mio modo di vedere a questa differenza di ispirazione.

Dossetti e la seconda Repubblica?
Si era accorto che il mondo stava cambiando in maniera vertiginosa e vide nella seconda Repubblica un aspetto di questa trasformazione. Per come il cambiamento si stava realizzando, vi vedeva un declino di civiltà. L’acme era Berlusconi, incarnazione della decadenza.

Ma perché Dossetti ha sempre diviso e divide ancora la Chiesa?
Come tutti i personaggi carismatici che sono stati segno di contraddizione, ha posto domande molto radicali, non sempre bene accolte. Dal punto di vista, diciamo così, più istituzionale, gli si rimproverava di essere un maestro senza averne il titolo; di essere, insomma, sprovvisto di patente, come avrebbe detto Pirandello.

(Federico Ferraù)