Le numerose celebrazioni dell’Anno costantiniano, e non da ultimo il discorso letto in Sant’Ambrogio il 6 dicembre scorso dal cardinale Angelo Scola, Arcivescovo di Milano, hanno richiamato una volta di più l’attenzione sul tema della libertà religiosa, garantita per la prima volta dal provvedimento noto come editto di Milano, del 313.
Per opportuna chiarezza occorre dire prima di tutto che con tale provvedimento Costantino non rinnovava semplicemente la tolleranza nei confronti dei cristiani, come era avvenuto nel 311 ad opera di Galerio e, ancor prima, di Gallieno nel 262, ma riconosceva a tutti i cittadini dell’impero la libertà di professare il credo religioso che ciascuno sentiva come il più rispondente alla propria sensibilità: «…concedendo sia ai cristiani che a tutti la libera possibilità di seguire la religione che ognuno si è scelta» (Lattanzio, Come muoiono i persecutori, 48, 2).
Giustamente perciò questo è stato considerato l’initium libertatis dell’uomo moderno. La libertà religiosa proclamata da Costantino e dal collega Licinio concludeva un periodo lungo quasi tre secoli durante i quali ai cristiani non era stato consentito di professare liberamente la propria religione perché giudicata illicita e migliaia erano stati i martiri. Costantino metteva sullo stesso piano tutte le religioni professate nell’impero e per la prima volta lo stato romano rinunciava a farsi arbitro della liceità dei culti, come aveva fatto fino allora attraverso organi politico-religiosi, come i collegi destinati alla regolamentazione dei culti, che garantivano il rispetto e la continuità della tradizione, e provvedimenti aventi valore di leggi come i senatoconsulti.
Roma in questo non differiva dalle poleis greche e dagli altri stati dell’antichità, attenti a non contrastare la volontà degli dei. Lo stato era perciò strettamente vincolato al culto religioso, quando addirittura re e imperatori non finivano per identificarsi con la divinità e pretendere il culto religioso per se stessi. Nessuno stato antico poteva immaginare di separare i propri destini da un corretto rapporto con gli dei.
Proprio in questo il provvedimento di Costantino era rivoluzionario: esso interrompeva la condizione di soggezione dello stato romano ai vincoli della religione. La libertà di culto, della quale avrebbero goduto da allora in poi i cristiani e i fedeli di tutte le altre religioni, aveva un risvolto altrettanto importante, per lo più ignorato dalla moderna storiografia: lo stato si sarebbe affrancato dal legame, che si può definire ontologico – in quanto condizione della sua stessa esistenza – che lo aveva vincolato fino allora. Si può dire che proprio il “distacco” dello Stato romano dalla religione che esso aveva scelto all’origine come garanzia della sua sopravvivenza ne permise l’emancipazione e gli conferì una autonomia che gli era stata fino allora preclusa.
Perciò senza libertà religiosa lo Stato romano sarebbe rimasto uno Stato teocratico, tanto più dopo che gli imperatori avevano preteso il culto della loro persona. Perciò – e questo comporta conseguenze di non poco conto – la libertà religiosa è funzionale alla laicità dello stato e, anzi, lo stato deve garantire la libertà religiosa per garantire la propria libertà. In definitiva la libertà religiosa è condizione della libertà per lo stato e come tale la precede.
Questo ha naturalmente valore in una situazione nella quale si possa parlare di “libertà religiosa”, e poteva valere, al tempo di Costantino, per tutto l’ecumene romano, dove la legge era una sola. Perciò la condizione perché lo stato affermi la sua laicità – cioè la propria libertà – è difendere la propria autonomia dalla religione; altrimenti se non si vuole dare a Dio quello che è di Dio non si potrà dare neppure a Cesare quello che è di Cesare.